A Roma la svolta del coraggio

di Mario Ajello
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Giovedì 2 Ottobre 2014, 23:22 - Ultimo aggiornamento: 3 Ottobre, 00:13
Un gesto coraggioso. Il sindaco Marino ha azzerato il contratto degli orchestrali del Teatro dell’Opera per ricominciare al meglio. Secondo nuovi standard di eccellenza e di meritocrazia. E questa iniziativa che spezza il passato e guarda avanti può valere come spinta per l’orgoglio di Roma. Stanca di essere inchiodata a un sistema corporativo e pansindacalizzato, che ha impedito finora di fare cultura e di fare musica all’altezza del prestigio della Capitale d’Italia.



Madrid, Berlino, Londra, Vienna hanno orchestre ingaggiate a tempo determinato - senza Cobas del violino, stacchi o distacchi sindacali - che trattano attraverso una cooperativa il numero di esibizioni che sono tenute a fare in una stagione. Sono state esternalizzate in quelle metropoli le orchestre e i cori, e poi messe a contratto con gli enti teatrali. Così fan tutti e noi no? Il coraggio di essere come gli altri e meglio degli altri, e di poter competere con le produzioni artistiche e con i criteri di gestione in uso all’estero, finalmente lo abbiamo trovato.



Il metodo Marino, condiviso anche dal ministro Dario Franceschini e dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, consentirà adesso di puntare sull’eccellenza di chi suona e di chi organizza il sistema e rappresenta un modo per ripercorrere le orme di Jack Lang. Il celebre ministro francese della cultura che venti anni fa chiuse l’Opéra di Parigi e la fece rinascere dalle sue ceneri assai più forte e competitiva. Su quella traccia, l’operazione che si fa oggi a Roma elimina al Teatro dell’Opera e in prospettiva ovunque - anche fuori dal mondo degli enti lirici - le incrostazioni assembleari e paralizzanti, figlie della contrattazione sindacale d’origine sessantottina che ha ridotto la cultura italiana, insieme ad altri settori pubblici, nello stato paludoso e improduttivo che abbiamo tutti sotto gli occhi.



Basti ricordare gli spettacoli saltati la scorsa estate a Caracalla. Per non dire dell’umiliante ma sacrosanto rifiuto del maestro Riccardo Muti di esibirsi a Roma: «In questa città non si può lavorare». Ora, grazie al metodo Marino, forse si ricomincia. Il che non significa - come i soliti soloni della conservazione parassitaria sono pronti a pensare e lesti a gridare fuori tempo e fuori sincrono: «Tutto allo Stato e niente fuori da esso!» - perdere, in favore del diabolico mercato e della demoniaca concorrenza, lo straordinario patrimonio artistico e professionale che c’è al Teatro dell’Opera, ma liberarsi soltanto e non è affatto poco della zavorra corporativa e dei pesanti paraocchi fintamente egualitari che hanno prodotto ingiustizia e disservizi. Gli orchestrali e le maestranze devono essere retribuiti sulla base della qualità delle performance e non sulla base della solita tiritera dei diritti eternamente acquisiti e dunque intoccabili.



Roma deve andare fiera di questo strappo delle radici sbagliate e di questo rifiuto delle degenerazioni non più tollerabili. Ha dato uno strattone al felliniano caos dell’Italia da «Prova d’orchestra» e può mostrare la forza di una Capitale che nella musica, e in tutto il resto, non ha niente da invidiare alle altre grandi città.