Gigi Proietti e i successi al Globe: «Ci vorrebbe sede fissa per Shakespeare»

Gigi Proietti
di Rita Sala
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Sabato 9 Agosto 2014, 14:57 - Ultimo aggiornamento: 12 Agosto, 16:07
Un’estate cos, cos strana dico, io me la ricordo. Come tutti i teatranti sono attento a come va il meteo perch ne subisco le conseguenze sugli spettacoli. E sì, sette-otto anni fa ci andò male come quest’anno, lavoravamo già al Globe... Voglio citare il solito tormentone: co’ ’sto tempo nun ce se capisce più gnente, un giorno fa caldo, l’altro fa freddo... Però bisogna ammettere che ’st’anno piove in maniera strategica: l’acqua che scende pare inesorabile, ti alzi al mattino, pensi che sia finita e invece tàcchete...».



Proietti, nonostante il meteo (almeno fin qui), al Globe è stato un “tutto esaurito” dietro l’altro. È riuscito a spiegarsi il successo che continua a riscuotere Shakespeare?

«Di solito un successo è il frutto della combinazione chimica di vari elementi, che stanno bene tra loro e vanno incontro, in forma di un “qualcosa”, ai desideri della gente. Shakespeare? Intanto è il massimo drammaturgo del Millennio. Poi c’è il cuore delle persone, e lui ci sta dentro. Aggiungiamo il Globe, Villa Borghese e (modestamente) anche me, che sono là tutte le sere... Mi vengono in mente i tempi di A me gli occhi: c’era voglia di un posto dove si facesse teatro con meno velluti e più libertà. E dove il prezzo del biglietto fosse accessibile a tutti. Successe quel che successe, orde di spettatori ad ogni recita».



Lei ha parlato, giorni fa, di una sede shakespeariana a Roma che lavori d’inverno.

«Sono convinto che funzionerebbe. Se ci fosse un teatro a disposizione, un teatro grande, oppure una tenda, per mantenere basso il biglietto riempiendo un alto numero di posti, andrebbe alla grande. Se uno fa teatro sa con chiarezza due cose: che la sana gestione di uno spazio non può prescindere dall’incasso e che, prima di ingranare bene bene, come è successo al Globe, ci vogliono del gran lavoro e qualche stagione di rodaggio».



Cosa l’ha veramente divertita negli ultimi tempi?

«Il tv movie che ho girato con la regia di Luca Manfredi, Una pallottola nel cuore, quattro puntate che andranno in onda in autunno. Io faccio Bruno, un cronista di “nera” alle soglie della pensione. Lui e la giovane collega che sta per sostituirlo vengono coinvolti casualmente in un vecchio caso irrisolto, uno di quelli che gli americani chiamano cold case. Comincia così una bella collaborazione che scioglie una serie di gialli del passato. Tra noir e commedia. Mi sono proprio divertito. Già ci hanno chiesto una seconda serie».



E la sua Roma, la squadra?

«Bell’argomento. La stagione scorsa mi ha fatto molto divertire, questo allenatore ci dà delle soddisfazioni. Almeno non abbiamo sofferto, come capita di solito. Poi la storia dello scudetto che vinceremo di sicuro, bè, devono smetterla de gufà».



Del crollo logistico e finanziario dei teatri romani cosa pensa?

«Una volta ero un po’ più curioso, mi interessavo di più. Adesso, dopo che mi sono tanto annoiato, ho lasciato perdere. Una cosa però mi è chiara: quando un pubblico viene sollecitato come si deve, risponde subito e tanto. Invece sento parlare di progetti, fatti formali, buone intenzioni. Tanta teoria. Di quanto costa fare teatro non si dice nulla».



Cioè?

«Ho deciso tempo fa di non dare più giudizi. I giudizi, in Italia, bisognerebbe farli passare attraverso un’associazione di cittadini, di artisti, di operatori, un’associazione seria e grande che ragionasse innanzitutto su un tema: siamo sicuri che quelli che hanno prodotto Cultura fin qui abbiano fatto bene? Poi, pur condannando le sempre più esigua erogazione di fondi pubblici alla Cultura, chiederei, sempre attraverso l’associazione, “piedi per terra”».



Invece?

«Invece ci sono assemblee, incontri, scambi, seminari, laboratorii... Della famosa Legge sul Teatro se n’è parlato e riparlato una marea di volte senza che sia venuto fuori niente. I termini che oggi vanno per la maggiore sono partecipato, condiviso, laboratorietà. Ma lo sappiamo che fare un laboratorio costa fatica e che bisogna farlo bene, impiegandoci tempo e sudore? Le nobili istanze teoriche non hanno una corrispondenza pratica, chissà perché. Io credo di saperlo fare, il teatro. Eppure, quando in passato fu sfiorata la possibilità che diventassi direttore dello Stabile, venne subito montata la crociata contro quello “che viene dal teatro privato”. Privato, pubblico, che differenza fa riguardo a una gestione?».



Ha smesso di dare giudizi e sta bene. Ma il futuro?

«Se qualcuno mi vorrà coinvolgere in questa o quell’impresa, valuterò di volta in volta. È un momento singolare. La disciplina filosofica da tirare in ballo è lo scetticismo».



Sostituendo l’aggettivo “singolare” con altri termini?

«Direi che stiamo in galleggiamento, in ristagno. Io, da italiano, sono ancora e sempre portato all’ottimismo, al bicchiere mezzo pieno. Ma adesso la gente comincia a chiedersi: pieno de che? Poi penso al Globe stracolmo di queste sere e devo ammettere che lì, almeno, si respira speranza. Negli italiani, in me, la voglia esiste, ma poi rincasiamo... Quale sia l’immagine reale del Paese non l’ho capito. Sofferenza ce n’è tanta, è indubbio, ma cosa pensa la creatura chiamata “italiano medio”, che è stata riconoscibile per tutto un lungo, lunghissimo dopoguerra? Non lo so». Un augurio per Ferragosto?

«Venga il sole, finalmente. Reale o metaforico. Il sole è un grande, buon auspicio».
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