Kurt Cobain, a 25 anni dalla morte parla Bruce Pavitt: «Sognava di riempire il Colosseo, se solo tornassi indietro...»

Kurt Cobain, a 25 anni dalla morte parla Bruce Pavitt: «Sognava di riempire il Colosseo, se solo tornassi indietro...»
di Simona Orlando
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Venerdì 5 Aprile 2019, 11:35 - Ultimo aggiornamento: 12:10

Il 5 aprile di 25 anni fa Kurt Cobain si barricò sopra il garage di casa, mise a terra il portafoglio aperto sulla patente di guida per farsi identificare e si sparò un colpo in testa. Aveva 27 anni, una moglie (Courtney Love) sposata in pigiama sulla spiaggia di Waikiki e una figlia di venti mesi, Frances Bean, che gli ha strappato gli occhi blu. Nella lettera d'addio, indirizzata all'immaginario amico d'infanzia Boddah, spiegava di essere troppo sensibile, di non provare più emozioni nell'ascoltare musica e nemmeno nel crearla.

Il ragazzo di Aberdeen che usava le chitarre rotte come tele per dipingere, addomesticava con l'eroina i dolori all'addome e di un'infanzia difficile, si sottrasse così al circo grottesco, diventandone, per beffa, l'icona. Non sostenne il successo di Nevermind (oltre 25 milioni di copie vendute) che nel 1991 traghettò la musica underground, grezza e urgente, in cima alle classifiche e fornì voce ad una generazione di giovani spiriti smarriti. Cambiò il modo di comporre, suonare, registrare e di trattare con i media. A mettere sotto contratto Mudhoney, Soundgarden e Nirvana fu la leggendaria Sub Pop Records, covo del fai-da-te fondato da Bruce Pavitt, che accompagnò il gruppo nell'avventura in Europa nel 1989. Oggi, sessantenne, ci racconta di quando tutto crollò e decollò.

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Cosa resta dell'esperienza grunge?
«Il messaggio che qualsiasi scena, in qualsiasi parte remota del pianeta, può avere un impatto globale, se sgorga dal cuore. Il mondo aveva fame di musica autentica. Quella di Los Angeles era artificiosa, per questo fummo acclamati».
Oggi tutti fanno musica indie da posti remoti, eppure non nascono altri Nirvana.
«Fare musica in camera non vuol dire essere indipendenti o veri. Chi lo è, sbanca, vedi Bilie Eilish, una ragazzina sincera emersa dal nulla mentre il pop è in uno stato pietoso».
Il primo incontro con Cobain?
«Nel 1987 con la fidanzata Tracy, parlò solo lei e lo presentò come un tecnico del gruppo Melvins. Kurt era introverso, silenzioso. Poi ascoltai il provino dei Nirvana, brani un po' acerbi, ma la voce era affascinante, diversa da tutto, diceva più delle parole. Nel tempo si mostrò un grandissimo autore».
Ha materiale inedito da pubblicare?
«Non lo farei mai. Per gli altri se n'è andato un mito, per me un amico».
La prima volta che lo vide dal vivo?
«Il 10 Aprile 1988 il Central Tavern di Seattle permise ai Nirvana di suonare qualche canzone, gratis, sabato sera alle otto. A vederli eravamo in due, più le fidanzate, il barista e l'uomo alla porta. Li scritturai».
Li portò in tour in Europa. Stessa strategia di Jimi Hendrix?
«Sì anche lui di Seattle, ebbe bisogno della stampa britannica per esplodere. Prima di internet era la più potente a convincere il pubblico globale. Con il solo disco Bleach, dopo il live all'Astoria di Londra, scoppiò il fenomeno Nirvana».
Successe dopo Roma, dove si erano sciolti.
«In giro in nove su un furgone Fiat, più strumenti e merchandising: sei settimane così avrebbero fatto impazzire chiunque. Il 27 Novembre al Piper Club Kurt ebbe un esaurimento nervoso. Fracassò chitarra e microfono, minacciò di buttarsi giù dalle casse e sciolse la band. Voleva tornarsene a casa».
Lo convinse a ripensarci?
«Era a pezzi e ci prendemmo un giorno di vacanza: cappuccino, visita alla Cappella Sistina, a San Pietro. Cambiò umore, ricomprò la chitarra in zona Monti e davanti al Colosseo scherzammo immaginando il giorno il cui i Nirvana avrebbero riempito un'arena simile».
Odiava la celebrità ma voleva riempire il Colosseo?
«Ha sempre vissuto questo conflitto. Voleva non vendersi, rimanere fedele alle radici punk, anticommerciale e antistar, ma anche condividere le sue canzoni. Una battaglia continua con sé stesso».
Dopo il suo suicidio, lei cambiò mestiere. Un caso?
«Fu tristissimo. Mi dissi: se il mio obiettivo è rendere famoso un artista e la pressione può portarlo a questo, francamente, devo ripensare la mia vita. Fossi certo che il successo lo distrusse e potessi tornare indietro, gli farei quel biglietto aereo da Roma per rientrare a casa. La verità è che non so cosa avrebbe potuto trattenerlo su questo pianeta».
Da Andrew Wood a Chris Cornell, il grunge conta molti morti. Si dà una spiegazione?
«No. Credo sia una coincidenza, nel senso che fatale non fu il grunge. La loro musica era riflesso di un tormento interiore, ma sono le pressioni a rivelarsi insostenibili a certi livelli. Accade nel pop, nell'elettronica».
Sbagliato etichettarlo come un movimento di depressi?
«Assolutamente. Era turbolento, vivo e liberatorio. Dischi buoni, concerti incredibili. Kurt era ultrasensibile, a disagio negli ambienti testosteronici e aveva i suoi demoni, ma starci insieme era uno spasso. Aveva grande senso dell'umorismo».
La Sub Pop fece l'apologia del loser, il perdente. Come nacque?
«Non sembravamo certo dei vincenti, vestivamo male, avevamo più rabbia che ambizione, sentivamo di vivere in una città anonima di cui nessuno si curava, perciò decidemmo di fare autoironia. Il sarcasmo guidò il nostro marketing».
Impossibile replicare quella scena?
«Sì, perché era una comunità reale, non virtuale. Si coltivava il senso del territorio, in club, garage, negozi di dischi. Ai sottoscrittori mandavamo singoli delle band locali ogni mese, via posta.
I musicisti suonavano insieme per anni, conquistavano gli spettatori uno a uno e si passava forse con un video su MTV. Oggi ci sono mille piattaforme e non ci si incontra. La vera condivisione non è un clic».

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