Tra Cgil e sinistra/ Il magro bottino di chi cerca solo rivincite

di Oscar Giannino
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Mercoledì 15 Marzo 2017, 00:05
Il governo ha scelto la data del 28 maggio per i referendum sul lavoro proposti dalla Cgil. I quesiti residui sono due, perché quello su cui la Cgil faceva più affidamento quanto a traino popolare, relativo alle modifiche dell’articolo 18 apportate dal Jobs Act, è stato respinto dalla Corte Costituzionale. Non proponeva infatti il ritorno al vecchio testo di legge precedente alla riforma, come dovrebbe fare un referendum abrogativo, ma l’estensione delle vecchie tutele di reintegra giudiziale non alle imprese con più di 15 dipendenti bensì per quelle sopra i 5.

Diciamolo: i due quesiti residui rappresentano l’ennesima riproposizione di un errore troppe volte compiuto. Sono cioè un nuovo esempio di richiesta abrogativa di norme le cui caratteristiche tecniche specifiche sono nettamente al di fuori di quelle scelte generali e di principio alle quali andrebbe riservato l’istituto del referendum. Ricordiamo un dato, relativo ai mancati raggiungimenti del quorum previsto per la validità della consultazione, il superamento alle urne del 50% dell’elettorato. Se i due referendum si terranno il 28 maggio, saranno il 68° e 69° quesito abrogativo nella storia della Repubblica.

Ma dal 1997 a oggi, consecutivamente in 20 anni ben 25 quesiti abrogativi non hanno registrato il quorum, l’unica eccezione è stata rappresentata dalle 4 proposte sottoposte alle urne nel 2011 (sul servizio idrico). La serie storica dovrebbe pur dire qualcosa, a chi propone referendum. Non è il caso della Cgil, che contava sul referendum anti Jobs Act per ottenere il quorum, ribaltare l’eredità su questo punto del governo Renzi, incidere profondamente nella lotta per la leadership apertasi nel Pd dopo lo smacco del 4 dicembre. Invece, la Cgil ora si trova con due quesiti restanti di assai scarso appeal popolare.

È proprio per questo che, malgrado la sconfitta nelle urne della proposta complessiva di riforma costituzionale, resta urgente rivedere l’istituto stesso del referendum. La riforma proponeva la conferma della quota di 500mila firme per promuovere una consultazione abrogativa. Ma prevedeva che, in caso di almeno 800mila firme raccolte, il quorum non fosse più della metà degli aventi diritto al voto ma si abbassasse alla metà di coloro che avevano votato all’ultima tornata elettorale. E introduceva il referendum propositivo su grandi scelte, oltre ad alzare a 150 mila le firme necessarie per le proposte di legge popolare, prevedendo però per il Parlamento tempi certi per il loro esame.

Era una batteria di proposte, sul tema della partecipazione diretta alle grandi scelte legislative, che resta valida ed è da riprendere come modello. Ora bisognerà vedere se il poco tempo consentirà la modifica delle norme su cui insistono i quesiti, visto che anche i 60 giorni di conversione di un decreto legge renderebbero incerti i tempi per la pronuncia in tempo utile da parte della Corte di Cassazione sulla decadenza dei referendum. Ma il punto vero non è questo. Bensì che la volontà abrogatrice dei voucher espressa dalla Cgil comunque rappresenta un passo indietro secco per il mondo del lavoro italiano. Ignora il fatto che i numeri sin qui rilevati dell’applicazione dei voucher mostrano che tale strumento ha effettivamente intaccato la montagna del lavoro nero italiano. Rifiuta l’evidenza che per la stragrande maggioranza di quei lavori mai e poi mai si stipulerà un contratto. Respinge l’idea stessa che il lavoro - la sua cultura e la sua dignità - sia espressione di una società flessibile e in continua trasformazione, non immobilizzata in antiche forme ideologiche.

L’abrogazione del voucher è richiesta in nome del fatto che, nato per il lavoro accessorio, sarebbe invece la catena intorno al collo del nuovo precariato. Senonché lo studio Inps relativo ai dati 2015 effettuato da Bruno Anastasia e Pietro Garibaldi mostra come i percettori dei voucher siano quasi al 10% pensionati, mentre il 55% si divide tra chi ha un altro lavoro e percettori di ammortizzatori sociali. Sommando queste tipologie si direbbe dunque che il più dei percettori utilizzano il voucher davvero per attività accessorie, e per tipi di mansioni in cui prima il nero imperava. Comunque stiamo parlando di una platea pari all’8% del totale degli occupati nel 2015. E se le stime di Garibaldi e Anastasia sono corrette, significa che quasi 900mila del milione e seicentomila di percettori di voucher stimati nel 2016 sono stati strappati al nero in cui prima erano confinati, senza avere diritto a un euro di contributi versati. È così disprezzabile, in un’Italia in cui restano 3 milioni di disoccupati?

Certo, i dati dicono anche che alcuni correttivi sono magari utili. È del tutto fisiologico, non patologico, che i settori in cui il voucher è esteso siano turismo, commercio, giardinaggio e manutenzione edilizia, servizi alla persona. Un punto interrogativo riguarda l’uso in edilizia e agricoltura. Ma molti di coloro che sono al lavoro per modificare il voucher non tendono a modifiche limitate e mirate. Vogliono di fatto neutralizzarlo, renderlo pressoché insignificante. Cesare Damiano vuole alzarne la parte contributiva parificandola a quella del lavoro dipendente. Lo stesso ministro Poletti ha parlato di ridurne l’uso il più possibile alle sole famiglie. C’è chi propone di limitarne i percettori a studenti, pensionati, disoccupati, disabili ed extracomunitari solo se regolarmente disoccupati da almeno sei mesi. C’è chi pensa di abbassarne drasticamente il tetto massimo attuale annuo sia per il soggetto pagatore, sia per il percettore, anche se la stragrande maggioranza dei percettori non arriva ai 5mila euro annui rispetto al tetto dei 7mila esistente. Ma naturalmente tutti questi nuovi vincoli di cui si parla si applicherebbero assai meno alla PA, agli enti e agli stessi sindacati che utilizzano i voucher oggi. La stessa Cgil che ha proposto il referendum, li usa per pagare in Emilia Romagna gli attivisti della sua federazione di maggior peso, quella dei pensionati. Tutti sembrano indifferenti di fronte al fatto che le nuove norme sulla tracciabilità, introdotte dal governo Renzi, hanno già negli ultimi mesi frenato la crescita dei voucher, e consentito di identificare e sanzionare centinaia di usi impropri.

Quanto al quesito poi sul lavoro solidale nel regime dei subappalti, a malapena lo comprendono gli addetti ai lavori. Il grande colpo politico sull’articolo 18 non è riuscito alla Cgil. Ma nell’attacco a testa bassa sui voucher si ripropone una vecchia strategia: ideologizzare una questione assolutamente non centrale in un paese a bassa occupazione e bassa produttività, per farne un vessillo di ritorno al passato.

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