Il caso Raggi e M5S/ L’ingenuità è l’alibi dei non idonei

di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Sabato 24 Dicembre 2016, 00:11
Voltaire, che sul candore scrisse il suo celebre “Candide”, sosteneva che «nel gioco della vita umana, si comincia con l’essere ingenui e si finisce con l’essere furfanti». Chissà se Dibba l’invettivista, che si ritiene un letterato ed è fresco autore di auto-biografia, conosce questa lezione illuministica.Ma non sembrerebbe, a giudicare dalla massima filosofica che, da par suo, ha appena coniato: «Spesso onestà e ingenuità camminano insieme». Che poi è una chiosa alla sua affermazione secondo cui «tutti noi dicevamo alla Raggi di allontanare Marra, ma lei si fidava di lui». Dunque Di Battista e gli altri grillini, a cominciare dal leader, si gettano in questo ragionamento di fronte alle vicende della giunta capitolina: siamo onesti ed essendo onesti ci comportiamo bene, e se per caso incorriamo in errore ciò è dovuto alla virtù dell’ingenuità. Un sillogismo sbagliato. Perché in questo e in tutti gli altri casi, prima bisogna dimostrare di essere onesti nei fatti - e non lo si è mai in base a preventive auto-dichiarazioni ma solo alla prova pratica - dopo di che, se si sbaglia, non si può addurre a scusante l’ingenuità. Si deve riconoscere, viceversa, la propria incapacità. 

Fabrizio De André, in una sua canzone, diceva che «dall’ingenuità possono nascere dei piccoli miracoli o delle grandi idiozie». Qui sembra di stare nella seconda categoria. Ma c’è di peggio. Ingenuità non fa rima con onestà. E’ intellettualmente disonesto usare la maschera del candore - che in politica ha prodotto sempre disastri - per non ammettere di essere inidonei. Non solo a governare una grande città ma anche a selezionare le persone giuste per la bisogna, a stabilire un rapporto produttivo con le élites dei competenti e dei migliori, a fare una squadra all’altezza del compito. Si sta usando il paravento dell’ingenuità, per abdicare al dovere di conoscere le cose e di saperle maneggiare. E ci si appella all’onestà, considerandola a torto parente dell’altra, senza calcolare che di per sé questa non può essere una virtù politica - semmai è una trappola perché prima o poi arriva uno più puro che ti epura, e in questo caso dei grillini è la magistratura - ma è soltanto un espediente retorico.

Questione su cui Benedetto Croce scrisse nel 1931 parole definitive e più attuali che mai: «L’onestà politica non è altro che la capacità politica, come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza, condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». 
In questo teatro della dissimulazione non onesta, Grillo fa da mattatore. Quando le cose vanno bene, e si vince a Roma, si cresce nei sondaggi, si crede di intravedere all’orizzonte Palazzo Chigi, il leader attribuisce a se stesso il merito di tutto. Quando le cose non vanno, come sta accadendo ora nella Capitale, Beppe scarica la colpa sulla Raggi. Invece di ammettere che spesso la rivoluzione divora se stessa, il movimento 5 stelle - per salvare la presunta purezza dell’Idea - sostiene che il singolo ha sbagliato ma l’Idea è pura e non va contaminata. E’ la giustificazione che usavano i comunisti in tutto il mondo, Italia compresa, per sbandierare goffamente e rilanciare malamente la propria purezza rispetto agli orrori diventati sistema con lo stalinismo. 

Il meccanismo di scaricamento della Raggi contrasta con il fatto che Virginia è stata scelta proprio da coloro che adesso la indicano come colpevole della crisi. L’attuale sindaco fu candidata infatti, con scelta mirata e per certi aspetti forzata, per volontà di Grillo e di Casaleggio padre e figlio. E’ stata calata dall’alto, anche se poi ha avuto l’imprimatur di primarie on line poco frequentate, sulla base di una strategia condivisa dai dioscuri M5S e che comporta adesso una loro naturale corresponsabilità nelle decisioni e nelle non decisioni del titolare del Campidoglio. Quindi, sarebbe giusto applicare - al movimento e al suo sindaco - il criterio del “simul stabunt simul cadent”. 

Del resto, gli sfracelli della politica negli ultimi tempi si compiono nei cerchi magici. Così fu per Bossi e la sua corte del Trota e di Belsito. Sia pure in maniera diversa, anche il Giglio Magico di Renzi ha sofferto della propria propensione alla chiusura. E il Raggio Magico di Virginia, a cui potevano accedere solo Marra e Romeo sulla base di un rapporto non all’insegna della trasparenza sempre sbandierata e con il coinvolgimento di Grillo, costituisce un altro capitolo di questa personalizzazione e privatizzazione della politica. Quando i gruppi di potere sono ristretti, in realtà c’è assai poco di magico, l’incantesimo si spezza presto e le responsabilità del risultato riguardano tutti. Nonostante si cerchi di mascherare questa evidenza, puntando in maniera poco onesta sulla presunta ingenuità degli altri.
© RIPRODUZIONE RISERVATA