La crisi di Roma: la bella morte sulle macerie di un partito

di Alessandro Campi
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Giovedì 29 Ottobre 2015, 23:30 - Ultimo aggiornamento: 23:53
Ma quali e quante colpe avranno mai da scontare Roma e i suoi abitanti che possano giustificare, anche agli occhi di coloro che non hanno mai amato questa parte d’Italia, il degradante (e anche un po’ grottesco) spettacolo politico di queste settimane? E può un’intera città - a poche settimane dall’avvio di un evento eclatante come il Giubileo - pagare un prezzo tanto alto per il narcisismo di un sindaco alla ricerca ormai della “bella morte”, votatosi ad un suicidio spettacolare, e per l’incapacità di un partito a tenere sotto controllo i suoi uomini imponendo loro una linea d’azione unitaria e scelte per tutti vincolanti? Si denuncia spesso il pressappochismo dei romani, unito ad un’indole cinica e ad un modo di fare che oscilla tra l’ignavia e la furbizia. Ma questo non è il ritratto di un popolo, che non merita simili rappresentazioni stereotipate, ma la descrizione di un gruppo dirigente - segnatamente quello del Pd romano - che negli ultimi anni non ne ha azzeccata una di mossa. Basta un elenco veloce dei suoi errori.



Ha lasciato che al suo interno si incistassero consorterie e affaristi di quart’ordine, salvo denunciare sempre l’immoralità degli altri. Ha favorito l’ascesa di un outsider come Marino per assecondare populisticamente il mito di una società civile sempre virtuosa e capace. Gli ha consentito di inanellare ingenuità e gaffe a ripetizione e lo ha difeso ad oltranza, oltre il verosimile e il necessario, dalle accuse di incapacità degli avversari. Poi lo ha bruscamente mollato al suo destino, persino ingenerosamente, senza però garantirsi politicamente rispetto ai suoi possibili e estremi colpi di testa.



Se Ignazio Marino si è dimostrato una personalità irresponsabile e fuori controllo, oggettivamente del tutto disinteressato al futuro di Roma al di là delle belle parole che continua a pronunciare rivolto ai suoi irreducibili estimatori, Matteo Orfini - l’uomo forte scelto da Renzi per sanare la sinistra romana dopo che se ne erano scoperte le magagne e gli intrighi - ha fallito per tattica, coerenza politica e capacità di guida. Il naufragio che a questo punto si annuncia sembra doppio: quello del primo cittadino e del suo commissario politico.



Specie se si scoprirà, come qualcuno teme, che i 19 consiglieri del Pd in Campidoglio sono tutt’altro che una falange compatta e disposta ad obbedire senza defezioni agli ordini del partito. Si dimetteranno tutti insieme (cosa che probabilmente avrebbero dovuto fare il giorno dopo le dimissioni di Marino)? Voteranno unitariamente la sfiducia a quest’ultimo semmai dovesse presentarsi - come vorrebbe fare - dinnanzi al Consiglio comunale con la pretesa di andare avanti imperterrito col suo programma? In questo sfascio prossimo al caos, che appunto non tiene in alcun conto i problemi di Roma, s’intravvede comunque un senso politico generale, che sembra rimandare ai progetti di Renzi per il futuro. Il suo pervicace silenzio sulla vicenda romana, la sua ostinazione a non voler trattare o discutere con Marino, il suo lasciare ogni responsabilità nelle mani del solo Orfini, lascia intravvedere un disegno.



Quello di partire dalla crisi ai suoi occhi irreversibile e altamente simbolica del Pd romano dominato dai “poteri marci” per avviare la costruzione di tutt’altro modello di partito. Nel quale - da quel che si può capire - non ci sarà spazio per gli eccentrici o i campioni dell’antipolitica alla Marino, ma nemmeno per i contorsionismi politico-dialettici della sinistra post-comunista di cui uno come Orfini è pur sempre un’espressione. In questo senso, per sgradevole che possa risultare ai romani, che certo vorrebbero la loro città meglio governata e non abbandonata a se stessa come è ormai da mesi, la Capitale sta funzionando suo malgrado come un laboratorio politico.



Di possibili alleanze e aggregazioni da realizzare nel futuro imminente e rese necessarie dal fatto incontrovertibile che il renzismo tanto funziona al centro, laddove non deve misurarsi con antichi equilibri e con le pastoie politiche tradizionali, quanto poco funziona in periferia e sul territorio, dove o pesano i vecchi apparati o la fanno da padroni singoli e spesso incontrollabili capipopolo.