Partiti e civismo: il conto salato dell’anti-politica in Campidoglio

di Stefano Cappellini
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Domenica 11 Ottobre 2015, 23:18 - Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 00:04
Nello scontro tra Ignazio Marino e il Partito democratico si fronteggiano due supposte verità. Sostiene Marino di essere stato vittima di un complotto del suo stesso partito, che non tollerava la sua ansia di pulizia e ha sfruttato la prima occasione utile per liberarsene. Sostiene d’altra parte il Pd che Marino paga una lunga serie di errori di cui è responsabile in prima persona e che il suo passo indietro era la sola via praticabile. Una verità esclude l’altra, naturalmente. E comunque la prima sarebbe parzialissima, la seconda quantomeno tardiva. L’unica verità oggettiva alla quale, per ora, i romani non sembrano avere né accesso né diritto è quella sulle ricevute dei pasti consumati dal sindaco, il quale aveva una soluzione molto comoda per sfuggire al complotto che pretende ordito contro di lui: fare i nomi dei commensali che avevano partecipato alle cene di rappresentanza pagate con la carta del Comune oppure spiegare per quale ragione i giustificativi di spesa riportassero indicazioni smentite da tutte le persone e le istituzioni chiamate in causa.



Su questo, invece, il sindaco dimissionario ha dato solo una risposta sfuggente («Ci può essere stata qualche imprecisione»). Difficile dire se prevalga in Marino la cautela difensiva o una vera propria rimozione del fatto, utile a rafforzare nella parte di opinione pubblica a lui favorevole l’idea che il sindaco paghi solo una pretestuosa pignoleria. In ogni caso, questa rimozione non è tollerabile. Sostenere che si tratta di un episodio trascurabile, se paragonato alla corruttela che ha piagato e forse piaga tuttora l’amministrazione capitolina, è argomento fondato ma del tutto insufficiente per derubricare la questione a insignificante: l’uso del denaro pubblico da parte di un amministratore, che la cifra sia alta o bassa, non è mai tale.



Marino non pare poi rendersi conto che, quando lamenta di aver subito una disparità di trattamento, e cioè che l’attenzione rivolta ai suoi scontrini non c’è stata sui suoi predecessori, dimentica che ad accendere un faro sulle ricevute è stato lui medesimo, costretto da una lunga scia di polemiche sulle sue assenze da Roma (era in vacanza mentre il Consiglio dei ministri decretava su Mafia capitale) e sui costi delle sue trasferte (il suo viaggio a Philadelphia era un caso anche prima delle parole del Papa, dato che era stato presentato come una trasferta per reperire fondi da mecenati Usa dei quali al momento - e i fondi e i mecenati - non si ha notizia).



Insomma, gli scontrini non spuntano come diversivo per macchiare l’immagine di un sindaco bene in sella, al contrario rappresentano il maldestro tentativo di rispondere ad accuse di malgoverno che, nei due anni e mezzo in cui è stato in carica, il sindaco non è mai riuscito a controbattere con argomenti più solidi (e meno «imprecisi», per usare le sue parole) di un pugno di ricevute. E qui torniamo alla politica, ciò che è mancato a Roma, sebbene il sindaco ne menasse vanto in campagna elettorale (“Non è politica, è Roma”, diceva il suo slogan, che solo ora viene criticato dai dirigenti del Pd per quella velleitaria rivendicazione che è).



Il guaio è che Marino sembra volersi trincerare ancora dietro quel vanto: l’impressione - speriamo sbagliata - è che si stia attrezzando per ricandidarsi in primavera con la parola d’ordine “io contro i partiti”, anche qui ignorando che non è la forza dei partiti ad averlo disarcionato, casomai la loro debolezza ad averlo issato su fino alla poltrona più importante del Campidoglio, dove un tempo si arrivava per lungo cursus honorum e non per mancanza di candidati interni o con la lotteria - talvolta fortunata talvolta no - delle primarie.



L’idea che la debolezza della politica potesse essere surrogata dall’onestà e dalla “marzianità” è un errore che Marino non ha certo coltivato da solo, dato che da Tangentopoli in avanti il civismo anti-casta è stato elevato a dogma, pure da molti che oggi rimpiangono l’incapacità dei partiti - per anni presentati come il male assoluto - di produrre nuova classe dirigente.
Marino ha sì governato avendo contro un pezzo del suo partito, ma ha fallito soprattutto perché per impostazione e istinto non ha mai compreso l’importanza di averne uno alle spalle. Ora, per Roma e per l’Italia, è il momento di uscire dal circolo vizioso dei campioni civici che spesso si specchiano vanitosamente nei peggiori luoghi comuni dell’opinione pubblica e dei partiti che li arruolano per mascherare il loro deficit di uomini e idee, salvo poi scaricare le responsabilità sulla loro inesperienza.