Cambio di stagione/ Al passo d’addio i falsi miti sul federalismo

di Alessandro Campi
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Mercoledì 13 Aprile 2016, 00:01
Una maggioranza parlamentare composita, intermittente e persino sgangherata, un capo di governo mai passato al vaglio degli elettori e giudicato per ciò quasi illegittimo dai suoi numerosi avversari (interni ed esterni), una giovane ministro lodata soprattutto per la sua avvenenza e sulla quale sin dal giorno del suo insediamento si sono sprecate ironie e considerazioni maligne sono riusciti a varare, con la votazione finale di ieri alla Camera, una riforma della Costituzione che cambia in modo radicale il funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale. Chapeau, viene da dire, quale che sarà l’esito del referendum confermativo del prossimo ottobre, quando toccherà ai cittadini dare il giudizio finale su questa riforma. Nel corso dei decenni, infatti, maggioranze ben più solide e compatte, leader di partito ben più agguerriti e all’apparenza più motivati e ministri più scafati della Boschi nel gioco parlamentare o con grandi credenziali nel campo degli studi giuridici non sono riusciti a fare altrettanto. Sulla materia costituzionale si ricordano in Italia grandi dibattiti e ambiziosi progetti, sempre seguiti da clamorosi fallimenti nelle aule parlamentari. 


Se ne deduce che oltre ai numeri in politica contano la volontà e la determinazione (al limite della tigna) con la quale si perseguono i propri obiettivi: un tratto caratteriale che Renzi ha dimostrato di possedere in grande misura. Anche se in questa particolare congiuntura qualcosa ha contato la condizione di grave degrado - percepito o oggettivo poco importa - nel quale versa la politica italiana: delegittimata agli occhi dei cittadini e perciò facile oggetto di invettiva e denuncia per i demagoghi d'ogni colore. Questa riforma, per chi l'ha voluta, dovrebbe anche essere il segnale di una radicale inversione di rotta rispetto ad un passato italiano nel segno dell'immobilismo. Una specie di necessario ed estremo "o la va, o la spacca". E non c'è dubbio che in questa chiave, al di là del suo significato o valore tecnico, l'abbia interpretata anche una fetta non piccola dell'opinione pubblica.

 
La partita, chiusa per adesso nelle aule, si sposta nelle piazze (divenute nel frattempo quasi interamente virtuali). Ma appare chiaro sin d'ora che quello che si annuncia per il prossimo ottobre non sarà, per come Renzi sta impostando la partita in vista di questo appuntamento, un referendum costituzionale, ma un plebiscito politico: si dirà "sì" o "no" ad una persona e alla sua visione politica, non ad un progetto di riforma e alla sua articolazione funzionale. Renzi e i suoi ministri sono fautori della velocità e del rinnovamento generazionale. Chi si oppone al loro disegno di cambiamento incarna la vecchia Italia dei privilegi e verrà dunque stigmatizzato alla stregua di un guastafeste o di un uccello malaugurante. Gli avversari di Renzi, con una convergenza che già si annuncia curiosa tra destra e sinistra, gli riserveranno invece l'accusa di essere un ducetto in pectore, di volere liquidare ogni forma di opposizione, in Parlamento come nella società, e di avere irresponsabilmente stravolto l'architettura costituzionale della Repubblica.
Ciò significa che ci aspetta una lunghissima campagna elettorale nel corso della quale, c'è da giurarci, la discussione tecnica sulle singole questioni sarà eclissata da argomenti e slogan più ruvidamente polemici. Ma c'è ancora tempo per vedere se la discussione pubblica prenderà effettivamente questa piega. Nel frattempo c'è da segnalare una serie di conseguenze politiche, non prive di aspetti paradossali, che questa riforma appena approvata porta con sé. La più vistosa, un vera ironia della storia, riguarda il fatto che pur muovendosi essa nel corso del decisionismo craxiano-berlusconiano essa è stata votata da una maggioranza parlamentare di sinistra. Una sinistra che alcuni ritengono sia stata geneticamente modificata, e dunque stravolta sul piano delle aspirazioni ideali, da Renzi; ma che probabilmente quest'ultimo ha solo mentalmente liberato dal conservatorismo ideologico che l'attanagliava. Nei decenni passati ci si era convinti, a sinistra, che l'obiettivo di qualunque proposta di cambiamento costituzionale non fosse migliorare il rendimento delle istituzioni, bensì arrestare l'inarrestabile avanzata politica dei comunisti verso il potere. Introiettato questo convincimento politico, lo si era poi trasformato in pregiudizio etico travestito da dottrina giuridica da una schiera di costituzionalisti organici al partito. Renzi ha rotto quest'incantesimo politico-intellettuale e forse tra qualche tempo gli diranno grazie anche coloro che oggi nel suo stesso partito lo attaccano con veemenza.
Ma le ironie non finiscono qua.
Viene da ridire, ad esempio, nel vedere come tra i più accaniti critici di questa riforma ci siano stati, accanto ai grillini, anche gli ultimi testimonial parlamentari del berlusconismo. Non deve essere facile, dinnanzi ai propri elettori e a se stessi, denunciare come un male ciò per cui ci si è battuti per un'intera vita politica. Sono contraddizioni che elettoralmente si pagano. E lascia infine un po' confusi e divertiti il fatto che anni di dotte discussioni sul federalismo e il decentramento territoriale, visti da destra e da sinistra come i princìpi inderogabili intorno ai quali si sarebbe dovuta costruire la nuova architettura istituzionale italiana per renderla più moderna e funzionale, siano stati spazzati via da una riforma d'impianto radicalmente centralista e gerarchico, che non ha soltanto soppresso le storiche Province, ma tolto competenze alle Regioni e ridotto il Senato delle autonomie ad una funzione poco più che consultiva. Il vento della storia, ammesso che esista, evidentemente ha preso a soffiare nella direzione opposta a quella immaginata da una schiera di opinionisti e osservatori, costretti ancora una volta ad inseguire la realtà.
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