Brexit, l'accordo con l'Ue spacca il governo Cameron: in sei per il sì al referendum

David Cameron
6 Minuti di Lettura
Sabato 20 Febbraio 2016, 13:37 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 09:45

L'accordo Ue per scongiurare l'ipotesi Brexit spacca il governo di David Cameron: sono almeno sei i componenti dell'esecutivo Tory - 5 ministri e un sottosegretario - che intendono votare a favore della Brexit e in dissenso dal premier al referendum annunciato oggi per il 23 giugno sulla permanenza o meno di Londra nell'Ue. Lo riferisce la Bbc. Il personaggio di maggior spicco è Michael Gove, titolare della Giustizia. Ma pesano anche i nomi di Iain Duncan Smith (Lavoro), di John Whittingdale (Cultura) e di Chris Grayling, capofila storico degli euroscettici nel gabinetto.

Sulla linea di Cameron, oltre a figure scontate come il cancelliere dello Scacchiere e alter ego del premier, George Osborne, si conferma invece la titolare dell'Interno, Theresa May, in passato in fama di euroscettica dura. Sicuro il sì all'Ue anche dell'emergente ministro della Attività Produttive, Sajid Javid, mentre non si è espresso - ma è ritenuto sul carro del premier salvo sorprese - il collega degli Esteri, Philip Hammond, altro euroscettico storico. Gove, da parte sua, ha detto che il suo no a Cameron, del quale è stato un fedelissimo ed è un amico di lunga data, è stato «doloroso».

«È una delle decisioni più difficili della mia vita», ha aggiunto il ministro della Giustizia, affermando tuttavia - quasi a riecheggiare in modo uguale e contrario le parole del premier - d'essere convinto che l'accordo di Bruxelles non sia sufficiente e che la Gran Bretagna possa essere «più libera, più giusta e più prospera fuori dall'Ue». Ora tutte le attese sono concentrate sul popolare sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, che non ha ancora sciolto la sua riserva sul referendum: potrebbe farlo domani.


Gli elettori britannici saranno chiamati a votare il 23 giugno per il referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell'Ue. Lo ha annunciato Cameron, a margine di una riunione straordinaria del governo svoltasi oggi dopo l'accordo di Bruxelles della scorsa notte su quello che Downing Street definisce «il nuovo status speciale della Gran Bretagna» all'interno del Club dei 28.

La Gran Bretagna sarà «più sicura, più forte e più prospera in un'Europa riformata» di quanto lo sarebbe uscendo dall'Ue, ha sottolineato Cameron, ammonendo poi che chi è a favore della Brexit, come viene chiamata l'uscita dall'euro in Gran Bretagna, rischia di danneggiare sia l'economia, sia la sicurezza del Regno Unito di fronte a criminalità e terrorismo. Ha quindi sottolineato di aver mantenuto «la promessa fatta tre anni fa», quando annunciò di voler negoziare una revisione dei rapporti con l'Ue e convocare poi un referendum sulla permanenza nell'Unione, sottolineando che il voto - fissato oggi per il 23 giugno prossimo - sarà un momento «storico». E ha infine confermato che i ministri del governo conservatore - in parte contrari all'accordo da lui raggiunto - avranno «libertà di voto».

«Il gabinetto ha convenuto che la posizione del governo sarà quella di raccomandare che la Gran Bretagna resti in un'Unione europea riformata», ha detto ancora il premier britannico. «Sono convinto - ha aggiunto - che la Gran Bretagna sarà più forte in un'Unione riformata, perché noi possiamo svolgere un ruolo guida in una delle organizzazioni più grandi del mondo dall'interno».

L'accordo tra Londra e l'Ue. Dopo una maratona negoziale di 40 ore, Cameron può cantare vittoria. «Ora potrò raccomandare di votare sì al referendum», aveva detto ieri, aggiungendo che lo avrebbe fatto con «tutto il cuore e l'impegno», cercando di convincere gli elettori che è meglio riformare l'Unione europea da dentro e restare nel mercato interno piuttosto che uscirne e rinegoziare 27 accordi bilaterali.

L'inquilino di Downing Street rivendica che grazie alla sua battaglia la Gran Bretagna avrà «uno statuto speciale», che «non farà mai parte del superstato europeo», né mai di «un esercito europeo». E ancora, sostiene che il Regno Unito ha costretto l'Europa a «tagliare la burocrazia», anche se è esattamente uno dei punti del programma di Jean Claude Juncker. E assicura che Londra ha «riconquistato il controllo» sulle sue frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che «sfruttano il nostro sistema di welfare». Quello che ottiene è di poter limitare l'accesso ai benefici dello stato sociale britannico (spalmato su quattro anni) per 7 anni fino al 2024. 

Concettualmente è uno strappo per l'Europa, che non ha mai ammesso discriminazioni. Aveva però chiesto uno freno d'emergenza di 13 anni. E a chi gli fa notare che ha avuto poco più della metà, replica che «nessuno pensava che sarei mai riuscito ad ottenere alcun limite». Cameron riesce a far passare anche l'indicizzazione degli assegni per i figli rimasti in patria dei lavoratori europei emigrati nel Regno Unito, che saranno pagati in base al reddito medio del paese di residenza.

Deve ingoiare che nessuno dei benefici sarà retroattivo, e che l'indicizzazione piena scatterà solo dal 2020. In compenso il premier britannico martella sul recupero di sovranità, sul fatto che in una futura riscrittura del Trattato sarà esplicitamente scritto che il concetto di «unione sempre più stretta», su cui si fonda la costruzione europea sin dai Trattati di Roma del 1957, non si applicherà più alla Gran Bretagna. 

Nel testo finale dell'accordo resta un grado di autonomia per banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie della City dal 'single rulebook' europeo. Era il punto più delicato del negoziato, quello su cui Francois Hollande ha fatto da testa di ariete, col sostegno di Germania, Italia, Lussemburgo e Belgio. L'autonomia alla fine è ridimensionata dal ripetuto richiamo all'obbligo di rispettare «condizioni di parità nel mercato interno». E la City non sarà esente da dover rispettare anche eventualmente aumentati poteri delle authority europee di controllo, come Eba e Esma.

«Credo sia un buon compromesso, il bicchiere è più pieno che vuoto, direi tre quarti pieno», commenta il premier Matteo Renzi, aggiungendo di non considerarlo «un pastrocchio». «Qualche cultore - aggiunge - può pensare che sia un precedente, ma penso sia stato meglio fare chiarezza con il Regno Unito che andare avanti con un atteggiamento ondivago». Per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, «oggi abbiamo inviato il segnale che siamo disposti a sacrificare parte dei nostri interessi per il bene comune».

Per la presidente lituana, Dalia Grybauskaite, è stata tutta «una sceneggiata».

E l'accordo, che si autodistruggerà se al referendum vincerà il no, da solo non basta a garantire la vittoria nel referendum-trappola ideato da Cameron per vincere le lezioni di maggio scorso battendo Labour ed euroscettici dell'Ukip. Proprio Nigel Farage, leader dell'Ukip, boccia l'accordo come «patetico»: «Andiamo via dall'Ue, è la nostra occasione d'oro», twitta in nottata. E anche i Tory sono pronti a dividersi. Non tutti seguiranno Cameron. Anche il ministro della Giustizia Michael Gove, un pezzo da novanta nel governo, farà campagna per il no. Un brutto colpo. Che Cameron mostra di assorbire con disinvoltura: «Lo conosco da una vita. Mi dispiace, ma non mi sorprende». Da domani per il premier parte un'altra sfida, quella che porta al referendum. E la strada si annuncia in salita: i sondaggi danno i fautori della Brexit in vantaggio di due punti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA