La prevenzione/Casa Italia non può restare nel cassetto

di Oscar Giannino
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Giovedì 19 Gennaio 2017, 00:05
Quattro nuove scosse oltre il quinto grado della scala Richter, dopo decine di migliaia nell’interminabile sciame sismico che tra il 24 agosto e il 27 ottobre scorso ha già provocato 300 vittime e distrutto decine di centri abitati tra Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria. Neve, freddo, nuovo crolli dove si era da mesi cominciato ad abbattere per poi ricostruire e a ispezionare per risanare gli edifici non compromessi, caduta delle linee elettriche, decine di frazioni isolate. 

E nuovi centri colpiti, nel teramano e in provincia di Ascoli Piceno, città anch’essa ricaduta in un’emergenza più grave di quella autunnale. È presto per trarre un nuovo bilancio. Una cosa è sicura, dicono i geologi. La natura pluri-faglia del fenomeno non consente di fare previsioni. Scosse anche molto rilevanti potrebbero durare un periodo di tempo ancora molto lungo.
Oltre a rimettere ventre a terra la macchina dei soccorsi alle popolazioni e ai Comuni già rodata, che cosa possono fare le istituzioni? Almeno tre cose, per fermarsi alle emergenze vere e oggettive. Ed evitando se possibile da parte della politica polemiche vane. Identifichiamole sinteticamente, allora, le cose che il governo Gentiloni si trova a dover mettere in agenda: risorse, processi da accelerare, piano strategico.
Sulle risorse, per essere chiaro, non c’è e non può esistere un problema europeo. E sarebbe bene chiarirlo in termini immediati. La richiesta della Commissione Europea di riduzione del deficit programmatico previsto dal governo Renzi per il 2017 nella legge di bilancio approvata sul tamburo dopo la sconfitta referendaria non ha nulla a che fare con le spese necessarie ad affrontare il maglio sismico. Le regole europee sono chiare in materia. Si tratta dispese eccezionali a fronte di calamità imprevedibili. Non hanno nulla a che fare con il deficit strutturale corretto per il ciclo economico, che il governo Renzi ottenne da Bruxelles di accrescere di uno 0,6% di PIl nel 2016, e che si è proposto di innalzare ulteriormente, rispetto al rientro previsto pecedentemente, ancora di uno 0,4% nel 2017. La Commissione ha chiesto di ridurre quello 0,4% aggiuntivo chiesto da Padoan a uno 0,2%, abbassando di poco più di 3 miliardi il deficit 2017 previsto in legge di bilancio. 
Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con le spese per il terremoto. Piuttosto, la continuità dello sciame sismico e l’intensità delle scosse, che azzerano lavori e interventi già avanzati, pongono il problema di considerare in maniera più estensiva che cosa le regole europee definiscano come “spese per l’emergenza” distinte da quelle per il rilancio delle aree colpite. Come abbiamo più volte scritto nei mesi scorsi, la messa in sicurezza delle aree esposte a rischio sismico italiano, colpite ogni 10-15 anni da fenomeni di questa durezza, va considerata a tutti gli effetti una priorità nazionale che non ha a che fare solo con le spese per soccorsi e tetti provvisori alle popolazioni colpite. E’ a tutti gli effetti una “grande riforma”” strutturale, da far rientrare nel modello di calcolo comunitario degli interventi dai quali attendersi benefici di minori spese e maggior sicurezza e produttività futura, a fronte dei quali concordare e legittimare anche discostamenti dagli obiettivi di deficit strutturale. Esattamente com’è avvenuto per il Jobs ACT o la riforma della PA. 
La seconda sfida per le istituzioni è accelerare gli interventi d’emergenza abitativa le cui procedure, anche per questioni di legalità, si è inevitabilmente scontrata con il più che scontato forte peggioramento delle condizioni climatiche. E’ un fatto che interventi realizzati da privati per realizzare le soluzioni abitative temporanee secondo standard europei hanno richiesto e richiedono tempi molto più rapidi delle grande gare pubbliche bandite da Consip. C’è qualcosa da rivedere, e bisogna farlo subito.
Ma la vera sfida è la terza. Quella che Renzi ha chiamato Casa Italia. Non fermarsi più all’emergenza e poi all’avvio della ricostruzione dei centri colpiti, ma costruire una grande macchina pubblico-privata che abbia come obiettivo in alcuni anni la messa in sicurezza progressiva, a cominciare dalla aree italiane esposte a maggior rischio sismico e idro-geologico, della parte troppo rilevante del paese esposta a grandi pericoli dell’obsolescente patrimonio edilizio e urbano. 

Un primo passo è stato il sisma-bonus che dal 50% delle spese sostenute potrà arrivare fino all’85% se l’edificio viene migliorato di 2 classi di rischio, entro un tetto di spesa fissato a 96.000 euro l’anno stabilizzato fino al 2021, recuperabile in 5 anni anziché in 10, esteso dalle abitazioni private anche alle imprese. E accessibile non solo a chi risiede o opera in area sismica 1 e 2, ma anche in quella di categoria 3. E’ questo il problema da portare in sede europea. Per la Commissione, misure come queste dovrebbero essere sotto la linea del deficit consentito, non sopra. Gli unici fondi straordinari ammessi dovrebbero essere quelli per le spese dell’emergenza-sfollati, non della ricostruzione e messa in sicurezza. In 70 anni 4419 località colpite con 5700 vittime, con grandi terremoti ogni decennio che di volta in volta hanno visto ricostruzioni avviate con criteri diversi e contrastanti, dal fallimento del Belice all’enorme falò di risorse clientelar-assistenziali in Irpinia, dimostrano che l’Italia deve cambiare marcia. E questo sforzo va considerato e riconosciuto in Europa come strategico.

A un simile programma il governo Renzi dichiarava di destinare risorse pubbliche per 7 miliardi in 7 anni più altri 2,7 recuperati da spese non effettuate negli anni alle nostre spalle. Ma occorre aggiungervi molti miliardi di risorse private. Da incentivare non solo fiscalmente via bonus per gli interventi, ma anche per estendere il più possibile strumenti assicurativi sugli immobili, traendo lezione da altri paesi nel mondo a rischio sismico, che in materia hanno seguito in realtà modelli diversi, più o meno coattivi o volontari e con diversa disciplina di oneri compartecipativi anche per lo Stato. Quanti ai soggetti, un piano simile funzionerà solo se diventa una priorità nazionale di lungo periodo, non sollo pubblica ma estesa come una grande alleanza pubblico-privata. 
Il confronto con l’Europa va portato proprio sul modello a lungo termine di Casa-Italia.

Di cui a fine ottobre è stata avviata la cabina di regia, che amplia e assorbe gli uffici presso palazzo Chigi per il dissesto idrogeologico e l’edilizia scolastica, e che è stata affidata al rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone. Dovrà mobilitare tutte le eccellenze italiane in campo urbanistico, architettonico, della conservazione e ristrutturazione del patrimonio del paese. Dar vita a un motore progettuale policentrico, insieme centrale ma soprattutto incardinato a rete nei territori. Nel quadro di una entità organizzativa snella, pienamente trasparente, e non caratterizzata dal principio della deroga alle norme del nuovo codice degli appalti. Le deroghe hanno sempre portato dritto alle indagini delle procure, come sappiamo. 

Casa Italia è entrata anch’essa in una zona d’ombra, dopo il referendum e il passaggio di testimone tra Renzi e Gentiloni. Ora deve tornare al centro dell’agenda nazionale. E’ la più grande sfida dalla ricostruzione italiana del Dopoguerra. E’ la grande occasione per mettere a frutto tutto ciò che Giappone e California fanno tecnicamente da decenni, ma nel nostro caso in coerenza all’evoluzione e alla tutela del patrimonio storico di un paese irriducibile agli altri, com’è l’Italia. Ed è il banco di prova di una diversa volontà e capacità di riformare l’Italia. Questa volta non più su questa o quella branca di legislazione. Ma sulle condizioni fondamentali stesse che tutelano il diritto alla vita e alla sicurezza non solo degli italiani, ma di chiunque dall’estero venga a visitare, a vivere e operare nel nostro Paese.
 
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