Gianni Amelio: «Quella pazza felicità nel diluvio universale»

Gianni Amelio: «Quella pazza felicità nel diluvio universale»
di Gianni Amelio
6 Minuti di Lettura
Lunedì 12 Giugno 2017, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 14 Giugno, 21:07
La foto di Marisa Allasio con tanto di dedica ce l’ho ancora, e quel messaggio semplice con firma acclusa: «A Giovanni con simpatia, Marisa» mi restituiva l’ingenua sensazione di aver trasformato l’impossibile in realtà. Le prime lettere della mia vita le ho scritte a undici anni. Erano destinate ai divi del tempo, ai registi, agli attori e alle attrici, a quel vasto mondo che aveva creato l’epica di un cinema che si appoggiava sulle sponde del fiume e si fondeva con la storia dei monumenti di Roma. Era l’epoca dei grandi kolossal americani girati a Cinecittà tra l’inizio degli anni ‘50 e l’alba dei ‘60: Quo Vadis, Ben Hur e Cleopatra. La chiamavano Hollywood sul Tevere quella magia itinerante, e noi ragazzi, innamorati della sala fumosa che proiettava i nostri sogni sul grande schermo, eravamo in una sorta di rapimento mistico. 

SOGNI E VISIONI
Sognavo a occhi aperti anche io. Sognavo e prendevo carta e penna per indirizzare le mie brame da fan all’universo di Cinecittà. Le spedivo da un luogo lontano, Catanzaro, una piccola enclave di sessantamila abitanti che di hollywodiano non aveva niente. Ero un giovane di provincia, non rozzo, uno dei pochi che aveva la fortuna di frequentare il liceo classico, l’unico della zona, in un avamposto di frontiera in cui la ventura di leggere Catullo o Menadro era appannaggio di pochi. Facevo parte di una élite, anche se dal punto di vista economico non me la passavo bene e la mia famiglia non era all’altezza di mantenere un figlio all’Università. Ero un post adolescente che guardava a Roma con gli occhi rapiti dalle immagini di Fellini e de La dolce vita. Per me la Fontana di Trevi non esisteva come l’opera dell’ingegno di Salvi e Pannini, ma come specchio d’acqua in cui si era immersa la divina Anita. A Roma non ero mai stato e non anelavo né il Vaticano né Il Colosseo. Guardavo a Via Tuscolana, a Cinecittà, a quella che già consideravo Storia con la esse maiuscola. A Roma, finalmente, arrivai. Nel 1965, ad aprile, nella seconda metà del mese più crudele, quasi per caso. Finito il classico, mi ero messo a sgobbare facendo un mestiere bellissimo: l’insegnante. Tra le scuole medie e lo stesso liceo che mi aveva diplomato, mi arrabattavo tra una supplenza e l’altra cercando di guadagnarmi da vivere. Avevo diciannove anni e fino ad allora, se si esclude Catanzaro, non avevo visto altra città che non fosse Messina. Un giorno, durante le vacanze di Pasqua, pranzando con un mio ex compagno di liceo e con suo fratello che invece studiava alla Sapienza, mi venne offerta l’occasione destinata a cambiarmi la vita. «Se ti va, puoi salire a Roma. Potresti dormire nel letto in cui si appoggia mio fratello quando viene a trovarmi nella pensione dove abito». Dopo un paio di secondi accettai, mi pagai il biglietto del treno con il gruzzoletto che avevo da parte, e arrivai nella capitale da emigrante di lusso. Era quasi deserta per la Pasqua, luminosa, seducente, proprio come nei film. Io e il mio amico, manco a dirlo, quel pomeriggio andammo al cinema, in centro, alla Sala Umberto, che adesso è un bel teatro.

LA DIVINA LEA 
E vidi subito una giovane signora molto bella camminare con lo stesso passo straordinario che avevo visto sullo schermo. Era Lea Massari. Non me lo sono più dimenticato, ma allora mi parve un segno del destino. La mia prima esperienza a Roma si sarebbe esaurita presto, ed erano passati solo tre giorni. Stavo ragionando sul ritorno in Calabria quando lessi sull’Unità che Vittorio De Seta, fresco di Banditi a Orgosolo, stava preparando la sua opera seconda. Acciuffai l’elenco del telefono, e con la sfacciataggine che si sventola a vent’anni, cercai De Seta e ne trovai due, nella stessa via, una traversa di Piazza Albania. Una piazza che non sapevo dove si trovasse e che scoprii poco dopo, era agli antipodi della mia pensione di Via Tambièn, nel quartiere africano dove la toponomastica sapeva di avventure coloniali e ambizioni d’impero, finite come tutti sappiamo. Feci il numero e mi rispose una segretaria. Mi feci coraggio: « Vorrei parlare con Vittorio De Seta. E’ per un’intervista». «Aspetti». «Buongiorno, sono un ragazzo calabrese di passaggio a Roma. Scrivo per una rivista di Catania...». Lui si incuriosì. Era per metà siciliano e per metà, quella materna, calabrese. «Se vuole, passi lunedì mattina». Era un venerdì, ebbi due giorni interi per prepararmi, e il lunedì arrivai puntuale e fradicio di pioggia dalla testa ai piedi. De Seta mi sopportò per un’ora abbondante, avevo esaurito tutte le domande. Allora sparai l’ultima, senza vergogna: «Mi prenderebbe come assistente volontario?». Non disse né sì né no: «Ancora non sto girando, siamo in preparazione, se vuole può venire in ufficio anche da domani, ma non le prometto niente». Uscii fuori di me, passando il giorno più agitato e più felice della mia vita. Dal giorno dopo diedi un senso al mio viaggio a Roma. Partivo la mattina presto dalla Batteria Nomentana e prendevo tre mezzi, due autobus e un tram, per arrivare a Piazza Albania qualche minuto prima delle nove. Ci mettevo un tempo che oggi pare una barzelletta: quaranta minuti, uno più uno meno. Anche se sembra una frase fatta, allora Roma era un’altra cosa, con un traffico umano e una quiete che abbiamo dimenticato. Restai per un mese intero nell’ufficio di De Seta e tremavo all’idea che i soldi stavano per finire. Senza volerlo mi venne un colpo d’ala. Il film stava per cominciare e non si era ancora trovata l’attrice giovane, che De Seta voleva, mi ricordo «con una sensualità tra il malizioso e l’innocente». Gli suggerii un’inglesina che avevo visto su qualche rivista popolare. De Seta la volle conoscere subito, se ne invaghì, e io entrai nelle sue grazie. Un giorno Vittorio mi fa: «Ma tu lo sai che cos’è l’edizione?», «Sono i raccordi, no? In genere è un mestiere che fanno le donne. Ma non dev’essere difficile. Basta segnarsi tutto...». Sapevo perfettamente di cosa si trattava e gli diedi una dotta spiegazione. In breve mi ritrovai a fare quel mestiere, e poi in una salita progressiva, feci l’ assistente e poi l’aiuto. Il cinema era diventato il mio lavoro. La cosa strana è che mi portava lontano da Roma. Cinecittà forse era un falso mito, o una parola che ne significava altre. Viaggiavo parecchio, Jugoslavia e Spagna soprattutto, guardando il tramonto dei western spaghetti, e l’alba della nouvelle vague nostrana, con Bellocchio e Bertolucci. Feci un investimento spericolato affittando una casa in cui poi rimasi per ventotto anni. Un piccolo attico in piazza Santa Maria in Trastevere che costava 55.000 mila lire al mese, lo stipendio di un impiegato di concetto, un appartamento che sulla carta non mi sarei potuto mai permettere.

AUTONOMIA E RIMPIANTI 
Lo presi lo stesso e feci bene perchè Trastevere tra il Folkstudio, il Filmstudio e le cantine che riempivano i vicoli del rione, mi regalavano un punto di vista privilegiato su un pezzo di mondo prezioso. Facevo cinema. Uno dei pochi mestieri che ti dona una zona franca in cui puoi persino dimenticarti della vita quotidiana e dei problemi che la vita stessa ti impone. Uno dei pochi ambiti in cui la finzione è protagonista, e questa finzione -che magari non coincide con la beatitudine- è specifica di un microcosmo a se stante, con le sue regole e i suoi misteri. Un microcosmo che appartiene a un lavoro che, se non hai un po’ di follia dentro, non riesci nemmeno a concepire. Roma era questa follia e adesso l’ha perduta. Da quando il cinema è diventato meno protagonista, lo dico con rimpianto, la vita è più triste. E vivere a Roma o abitare in qualunque altro posto al mondo, è diventata, per chi fa spettacolo, un po’ la stessa cosa. 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA