Il 1993, l’anno in cui nasce la “grande illusione”

Il 1993, l’anno in cui nasce la “grande illusione”
di Carlo Nordio
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Martedì 16 Maggio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 20:15
Quando, nel 1789, cadde la Bastiglia, nessuno immaginò che qualche anno dopo la Monarchia sarebbe crollata, e si sarebbe instaurato il Terrore: un termine coniato per le esecuzioni del ‘94, ma in realtà riferibile all’anno prima. E infatti Victor Hugo intitolò “Le quatrevingt-treize” uno dei suoi romanzi più avvincenti su quel sanguinoso periodo. Con un parallelismo singolare, nessuno capì che la caduta del muro di Berlino, esattamente due secoli dopo quella della fortezza parigina, avrebbe determinato la fine della nostra cosiddetta prima repubblica. La stabilità internazionale, determinata dallo scacco reciproco tra Usa e Urss, condannati a vivere insieme come i due noti scorpioni nella stessa bottiglia, trovava in Italia una significativa simmetria nell’equilibrio tra Dc e Pci, che si reggevano come due carte appoggiantesi l’una all’altra. Caduta quella rossa, nemmeno la scudocrociata poteva reggere più. Abbandonata dai suoi storici sostenitori economici e anche religiosi, la Dc si dissolse trascinandosi dietro un intero sistema. Questo avvenne proprio nel 1993.

L’EQUIVOCO
La fiction che ora rievoca quell’ “annus mirabilis”, e che va in onda stasera, non può e non vuole fornire una rievocazione storico-giudiziaria accurata e completa. Tuttavia, al netto di qualche compiacimento voyeuristico e di qualche altra divagazione legittima da fiction, coglie due momenti di grande interesse.

Il primo è riassunto in una frase choc in cui si ravvisa l’impetuoso giustizialismo di Di Pietro, che suona più o meno così: «Mani Pulite sta lavorando su un sistema. Siamo in guerra, o noi o loro». In quel momento poteva essere lo sfogo di un carattere roccioso in un clima incandescente. In realtà espresse un convincimento, purtroppo poi recepito dalla maggioranza del Paese, che fu il frutto di un grande equivoco e la radice di un’illusione.
L’equivoco risiedeva, e risiede, nella perniciosa superstizione che la Magistratura debba combattere fenomeni, che essa invece non ha gli strumenti per debellare e nemmeno per ridurre. Anche senza scomodare Locke e Montesquieu e il principio della divisione dei poteri, è ridicolo pensare che le Procure possano intervenire efficacemente, e in modo duraturo, su vasti fenomeni criminali, siano la mafia, la corruzione o altro. Le ragioni sono molteplici. Prima quelle teoriche, perché i giudici devono proporsi solo l’applicazione della legge in relazione a fatti specifici, e non la battaglia contro un nemico munito di forze diversificate e diffuse. Poi quelle pratiche, perché ogni ufficio giudiziario è uno staterello a sé, e questo rende impossibile una strategia a lungo termine, unitaria e omogenea. E infine quelle politiche, perché la guerra all’illegalità organizzata deve (dovrebbe) farla proprio la politica. Da qui l’illusione che l’inchiesta su Tangentopoli, o qualsiasi altra indagine, potesse avere effetti se non proprio palingenetici, quantomeno decisivi sul fenomeno delle mazzette.

Come hanno ampiamente dimostrato le inchieste successive, fino al Mose, all’Expo e a Mafia Capitale, l’unico effetto del ‘93 è stato quello di far lievitare i prezzi degli illeciti, moltiplicandone altresì i destinatari. Cosicché, tanto per ritornare alla Rivoluzione francese, si può dire che la politica italiana, come i Borboni della Restaurazione, non ha imparato nulla e non ha dimenticato nulla.

Il secondo interessante momento della fiction consiste in un’altra frase, stavolta di un esponente della sinistra. Un ex militante, diventato berlusconiano, contesta in modo beffardo a un dirigente dell’ex Pci la presunta diversità morale di questo partito: hanno appena arrestato Greganti con le mazzette in mano. Il “compagno” non fa una piega e risponde con ironia: «Ma i nostri arrestati non parlano! E’ per questo che siamo diversi!». Aveva ragione.

REAZIONE A CATENA
Al di là del giudizio etico sulla conclamata equivalenza di condotta tra il Pci e gli altri partiti, sta infatti la circostanza - e questo ora ci interessa di più - che se l’arrestato non collabora, le indagini si fermano. A Milano, come a Venezia, e in altre città in misura variabile, la strategia investigativa era infatti molto elementare. Un imprenditore arrestato faceva il nome di un paio di politici cui aveva consegnato tangenti. Questi due malcapitati, arrestati a loro volta, facevano il nome di altri imprenditori da cui le avrebbero ricevute. Costoro, immediatamente ristretti “in vinculis”, indicavano altri percettori. E così via, in una sorta di reazione a catena dagli effetti immediati ed esplosivi. Se però un atomo non si scindeva, cioè se un arrestato non parlava, la bomba si disinnescava. E poiché i compagni non hanno (quasi) mai parlato, per il loro partito è andata un po’ meglio.

Qualcuno ha incolpato le Procure di avere trattato il Pci, o quanto ne restava, con un occhio di riguardo. Si è persino parlato di toghe rosse compiacenti o addirittura conniventi. Non è vero. Le colpe dei magistrati sono state molte, e ne abbiamo parlato spesso, anche in termini brutali. Ma tra queste non c’è stata l’inerzia codarda, o addirittura interessata, verso un particolare partito. Questo pregiudizio è tuttavia ancora duro a morire, ed è stato alimentato soprattutto dopo l’ingresso di Berlusconi in politica. Ma qui siamo già in un’epoca successiva. Aspettiamo le prossime puntate.

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