Quirinale, Napolitano il presidente dell'emergenza

Quirinale, Napolitano il presidente dell'emergenza
di Paolo Cacace
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Venerdì 16 Gennaio 2015, 05:57 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 19:53
Nel ripercorrere le tappe più significative della lunga presidenza di Giorgio Napolitano incastonate, ovviamente, nel più ampio spettro di una lunga vita contrassegnata da una forte, inestinguibile, passione per la politica non si può evitare di concentrare subito l'attenzione sull'ultimo tratto di questa straordinaria avventura: quello del «bis» al Quirinale. Un tratto - va ricordato - destinato a far entrare di diritto Napolitano negli annali della storia repubblicana come primo (e chissà? forse unico) presidente ad ottenere l'investitura di un secondo mandato. E' stato detto in varie occasioni che lo stesso Napolitano non voleva assolutamente questo impegno supplementare e aveva fatto di tutto per evitarlo. Lo aveva accettato soltanto perché si era reso conto che non vi erano alternative praticabili di fronte ad un'impasse dei principali partiti in conseguenza di un voto popolare che aveva in pratica spaccato le Camere in tre.



LE CONDIZIONI

Aveva posto condizioni precise per il suo «sì» spingendo i partiti a realizzare quelle riforme ormai inderogabili, forse consapevole - in cuor suo - che ben presto qualcuno avrebbe dimenticato o meglio avrebbe fatto finto di dimenticare quella richiesta corale di ricandidatura. Avrebbero prevalso le ragioni più mediocri della polemica politica. Così è accaduto che proprio questa seconda (e non richiesta) parte di mandato si è trasformata per Napolitano nella fase più difficile e forse più amara della sua lunga attività al servizio delle istituzioni in cui gli attacchi, i veleni sovente gratuiti, hanno preso come bersaglio il Quirinale fino al punto che qualche forza politica - non si sa bene neanche con quale fondamento giuridico-costituzionale - ha avviato una procedura d'«impeachment» nei confronti del Capo dello Stato, destinata peraltro ad essere rapidamente archiviata. Beninteso, questa campagna di calunnie, di attacchi, alimentata dai grillini e sostenuta anche dalle pattuglie berlusconiane (forse come risposta per una presunta, mancata, disponibilità del Colle a bloccare la decadenza del Cavaliere da senatore ovvero a concedergli la grazia «motu proprio» dopo la condanna al processo Mediaset) non ha turbato più di tanto Napolitano. Egli non ha mancato di replicare con fermezza alle accuse, sottolineando il carattere temporaneo della sua rielezione, condizionata alla volontà delle forze politiche di procedere rapidamente sulla strada delle riforme istituzionali (fine del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari) e di una nuova legge elettorale sostitutiva del Porcellum. E in qualche modo la scossa impressa da Renzi alle riforme, dopo il «patto» con Berlusconi per l'Italicum e il nuovo Senato, ha allieviato le pene di Napolitano, dimostrando l'esattezza della sua diagnosi. Anche se poi sono state le ragioni dell'età avanzata ad indurlo a lasciare anzitempo l'incarico, dopo il semestre di presidenza italiana nell'Ue.



Certo, le ultime battaglie hanno lasciato il segno, anche perché si sono accompagnate ad una lunga stagione di crisi economico-sociale e di recessione in cui gran parte delle famiglie italiane ha dovuto tirare la cinghia e la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha toccato livelli record. Ebbene, per tutto questo periodo il Quirinale ha rappresentato uno dei pochi punti di riferimento autorevoli, in Italia e all'estero.



Napolitano è stato costretto a svolgere un ruolo di supplenza soprattutto per mettere al riparo il Paese dagli attacchi della speculazione internazionale. La debolezza delle altre istituzioni (governo, partiti, Parlamento) ha rafforzato oltremisura il ruolo del Colle, spingendo qualche costituzionalista a parlare di un presidenzialismo di fatto.



Ma non era questo lo scopo che Giorgio Napolitano si era prefisso il 15 maggio 2006 quando venne eletto capo dello Stato. Ci arrivava a quasi ottantuno anni dopo che Carlo Azeglio Ciampi pochi mesi prima lo aveva nominato senatore a vita. Era il coronamento di una «lunga marcia» attraverso le istituzioni di un comunista non ortodosso che aveva vissuto in trincea tutte le fasi della Prima Repubblica.



LA FORMAZIONE ANTIFASCISTA

Si era formato politicamente nella Napoli antifascista dell'immediato secondo dopoguerra (dopo essersi laureato in giurisprudenza) con una cerchia di amici intellettuali (da Barendson a Ghirelli, da Francesco Rosi a Raffaele La Capria) che sembravano più attratti dalle sirene dell'arte e dello spettacolo che non da quelle della politica. Entrò nel Pci nel 1948 e ne divenne solerte funzionario pur avendo poca dimestichezza con Marx e con il suo Capitale. «Entrai nel partito senza sapere molto di marxismo e dei suoi sacri testi», confesserà molti anni dopo in un'intervista.



I primi segnali di inquietudine verso il centralismo democratico togliattiano e la cieca obbedienza all'Urss, risalgono ai primi anni Sessanta quando entra nel gotha del partito, dopo aver sposato un'avvocatessa marchigiana Clio Bittoni (che sarà la sua compagna di una vita). I fatti di Praga del '68 segnano uno spartiacque nell'esperienza critica di Napolitano che successivamente appoggia la linea del «compromesso storico» di Berlinguer almeno fino a quando non ne stigmatizza i limiti tattici, rivendicando a nome della corrente «migliorista» una svolta del partito in senso socialdemocratico. Nel 1978, come responsabile della politica economica del Pci, Napolitano è il primo dirigente comunista ad ottenere il visto per entrare negli Stati Uniti. E' un altro momento di svolta nella sua esperienza politica sempre più insofferente per l'arroccamento ideologico del Pci.



LE ISTITUZIONI

Le distanze si faranno sempre più profonde fino alla svolta di Occhetto con la nascita del Pds, sulle macerie del muro di Berlino e del crollo dell'impero comunista. La fase della milizia politica era conclusa. Si apriva quella di uomo al servizio delle istituzioni: come presidente della Camera negli anni roventi di Tangentopoli, come ministro dell'Interno nel governo Prodi nel 1996 e quindi come presidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo fino alla chiamata come undicesimo presidente della Repubblica, successore di Carlo Azeglio Ciampi.



La sua elezione - avvenuta all'indomani di una prova elettorale che aveva spaccato il Parlamento in due con la vittoria di misura del centro-sinistra - era la prova della definitiva archiviazione della «guerra fredda». Ma Napolitano disse subito che sarebbe stato «il Presidente di tutti». Avrebbe fatto dell'imparzialità un dogma assoluto. Così è stato, almeno fino ad un certo punto. L'aveva voluto sottolineare anche nella prefazione alla nuova edizione laterziana della sua autobiografia politica (pubblicata nel febbraio del 2008): «Resi subito evidente che avrei avuto come sola bussola il rispetto dei principi e degli equilibri costituzionali».

Beninteso: ciò non significa che Napolitano anche nell'esercizio del mandato presidenziale abbia rinunciato a quella «identità politica» che l'ha accompagnato per tutta la vita. Ha subito mostrato di non voler essere uno «spettatore inerte» delle vicende politiche, ma di modulare la sua azione per superare quel muro di «pura contrapposizione», di rissosità e di incomunicabilità tra i due poli, premessa per l'avvio di una stagione riformista e per gettare le basi di quella «democrazia dell'alternanza» che avrebbe fatto dell'Italia un «Paese normale». E' riuscito nello scopo? I dubbi sono legittimi e lo stesso Napolitano nella fase finale del mandato ha dovuto riconoscere che gli appelli al dialogo (parola presto cassata dallo stesso Presidente) sono stati vanificati dalla conflittualità tra i due schieramenti cui si è aggiunto per molti anni lo scontro sulla giustizia tra Berlusconi e le toghe. Rapporto con i giudici - va detto - difficile anche per Napolitano che sarà costretto a sollevare un conflitto di attribuzione sulla legittimità delle intercettazioni telefoniche disposte dai pm di Palermo nella trattativa Stato-mafia. Le armi della «moral suasion» si sono rivelate presto spuntate e i rapporti tra il Colle e il Cavaliere - quando questi torna al governo dopo la vittoria elettorale nei confronti del centro-sinistra - diventano subito critici.



LE TENSIONI

Invano, Napolitano cerca di smorzare i toni, utilizza le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia per mettere fine a quella che definisce «la guerra civile strisciante» tra i poli.

Lodo Alfano, caso Englaro, eccesso di voti di fiducia sono soltanto alcuni momenti di una tensione che raggiunge l'acme quando la crisi economico-finanziaria nel 2011 mette a nudo la paralisi del governo Berlusconi e la sua inaffidabilità di fronte ai partner dell'Unione europea. Lo spread vola verso tetti incontrollabili e dal cilindro di Napolitano esce il «governo del Presidente» nella figura di Mario Monti appena nominato senatore a vita. Indubbiamente con quella nomina (appoggiata dai due principali schieramenti) che consente al Paese di resistere alla pressione della speculazione internazionale e di recuperare credibilità, il ruolo di Napolitano cambia. L'arbitro è costretto a entrare, suo malgrado, nel vivo della partita. E' lui più di ogni altro il garante della stabilità. Nel dicembre del 2012, quando Berlusconi stringe i tempi per la caduta del governo Monti e Napolitano deve sciogliere le Camere con qualche anticipo sembra che il suo mandato sia vicino all'epilogo. I suoi appelli per le riforme restano inascoltati così come i moniti contro la corruzione dilagante che alimenta le schiere grilline dell'antipolitica. Anche la fede incrollabile per gli ideali dell'Unione europea subisce qualche colpo di fronte alla miopia dei partner europei incapaci di coniugare il rigore con la crescita. Insomma: è un bilancio non privo di amarezze quello che traccia Napolitano, nella primavera del 2013, in vista della conclusione del settennato. Con un solo, non trascurabile, conforto: i dati sull'ampio consenso di cui gode tra gli italiani.