Mario Ajello
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Fiction e realtà/ Moro e la lezione sulla politica che non c'è più

di Mario Ajello
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Giovedì 17 Novembre 2022, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 00:05

Il cinema incontra la tivvù, lo fa con la tragedia di Aldo Moro raccontata da un maestro quale Marco Bellocchio e la miniserie Esterno Notte è stata lunedì e martedì al suo debutto un successo di share destinato a continuare fino a stasera quando andrà in onda l’ultima parte. Un po’ di sorrentinismo di troppo ma la forza con cui viene narrato il contesto del ‘78, più l’analisi anche psicologica dei protagonisti della Dc di allora (la rappresentazione realistico-fantastica di Cossiga non solo funziona ma mette nella giusta luce la statura storica del personaggio), sono un’occasione per conoscerci meglio, per farci capire in maniera non didascalica ma artistica, originale e insieme istruttiva l’Italia di ieri e quella di oggi. Di un Paese che è riuscito a superare anche un trauma profondo, come fu l’orrore terroristico ampiamente supportato da una parte della sinistra estrema e minimizzato nei salotti dell’odio, senza snaturarsi e trovando nella politica, o meglio nell’unione tra i partiti in nome del senso dello Stato (la famosa «fermezza» fu una declinazione del patriottismo), il vincolo post-ideologico (in tempi malatissimi di ideologia) per andare avanti.
Al netto delle sue qualità cinematografiche e della bravura di Gifuni-Moro, di Servillo-Paolo VI e degli altri attori, Esterno Notte sta avendo un largo successo da prime time forse perché parla assai all’Italia dei giorni nostri. C’è in quest’opera tutto ciò che manca all’attuale politica. Ossia l’anelito, sia pure nelle abissali differenze politico-culturali, a considerare come valore supremo l’unità tra le parti, tra i partiti, tra le correnti. Ciò che si seppe fare allora, e che poi diventerà merce rara, è quanto Moro - in una delle scene madri del film- dice nel discorso ai vertici della Dc, pochi giorni prima del rapimento, per convincere l’intero partito a intraprendere la strategia della solidarietà nazionale e del governo con appoggio esterno del Pci berlingueriano: «Chi non è d’accordo deve fidarsi. Ma ripeto a tutti: siamo uniti. Perché, se dovessimo sbagliare, meglio sbagliare insieme». 

Una lezione che andrebbe applicata sempre. Il buon senso di una morale politica di cui si sente profondamente il bisogno ora, pur nell’ovvia impossibilità di paragonare - per fortuna - il dramma dell’Italia di allora alle traversie in corso. Nella politica in cui Moro si trovava a combattere, e Bellocchio quel teatro lo riproduce e lo reinventa da par suo, le insofferenze e le rivalità erano acutissime, c’era però il codice politico di quella stagione che era un codice in base al quale non esisteva salvezza fuori dalle chiese laiche che erano i partiti e fuori da un reciproco riconoscimento, da parte delle classi dirigenti, di un destino comune. L’unione fa la forza è l’opposto del particolarismo e della rissosità a vuoto in uso adesso. 
La pazienza delle trattative di tutti con tutti dentro e fuori dai propri partiti di appartenenza; la coscienza dell’importanza della politica come mediazione; la segretezza, o meglio la riservatezza, con cui le cose della res publica vanno trattate senza per forza mettere in piazza tutto e subito in una comunicazione continua che abbassa l’autorevolezza dei leader e non è funzionale alla decisione: si vede questo, perché questo era, nel romanzo italiano di Esterno Notte. E guai a rimpiangere quei tempi ma quella politica era un’altra politica e Moro ne è stato uno dei maggiori interpreti. 
Non si può, da telespettatori, restare indifferenti davanti alle gesta, alle manovre, ai dubbi, alle debolezze di uomini politici e di statisti come Moro, Andreotti, Cossiga, Berlinguer ma anche Paolo VI, che vengono molto caratterizzati nel loro Fattore Umano e questo approccio sembra fatto apposta per catturare il grande pubblico tivvù voglioso di storie personali fatte di carne e ossa.

Ecco allora, con buona dose di fantasy, il pontefice vecchio e malato che al mattino apprende dalla tivvù del rapimento del suo amico Moro e si alza inciampando nella flebo attaccata al suo braccio e quasi sviene.

Andreotti, non mefistofelico come nel Divo, che appena saputa la notizia di via Fani corre in bagno a vomitare e deve di corsa cambiarsi l’abito. Cossiga che confida a Moro tutte le sue pene familiari e non fa che guardare quanto si allarghino sulle sue mani le macchie della vitiligine dovuta allo stress per non aver saputo salvare il suo maestro dalle grinfie delle Br. Moro che per dormire ha bisogno di avere dentro il letto il nipotino Luca: lo stesso bimbo che abbraccia malinconicamente, come se sapesse la sorte che sta per capitargli, sull’uscio di casa pochi minuti prima della strage della scorta e del rapimento. 
E dunque una storia, anche intima, di leader di alto rango. Ma nessuno di loro - e qui il presente e il futuro devono e possono recuperare il passato di una politica più rappresentativa e più fattiva e il sentimento nazional-popolare avverte questa esigenza - era animato dal primato dell’Io, dal culto dell’Ego, dall’idea del partito personale, della lista con il nome mio, della privatizzazione dell’agire pubblico. Moro alla fine è stato, suo malgrado, un uomo solo. Ma la sua intera parabola racconta quella di una comunità larga e di una nazione che poteva dirsi tale, e che non ha cessato di essere una nazione in quella fase terribile di violenza e di sangue, proprio perché profondamente innervata da legami, reti, rapporti, dissidi e insieme compromessi politici e sociali: tutto quello che un telespettatore tipo vorrebbe vedere non soltanto in tivvù.

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