Alessandro Campi
Alessandro Campi

Oltre il caso Rai/ I fantasmi sul fascismo che giovano a chi li agita

di Alessandro Campi
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Lunedì 22 Aprile 2024, 00:44

Nelle stesse ore in cui scoppiava il “caso Scurati”, autore di un monologo sull’antifascismo indirizzato polemicamente contro Giorgia Meloni alla vigilia del 25 aprile, Fausto Bertinotti rilasciava un’intervista per sostenere che in Italia la storia gloriosa della sinistra, le cui insegne appaiono oggi soprattutto nelle mani di personaggi dello spettacolo e intellettuali incistati nel sistema della comunicazione radio-televisiva, è terminata in realtà nel lontano 1980: con la sconfitta nelle piazze del movimento operaio all’epoca del durissimo scontro tra le organizzazioni sindacali e la Fiat. 

Secondo l’ex segretario di Rifondazione comunista, quelle vicende (simboleggiate dalla marcia dei quarantamila colletti bianchi contro le tute blu) segnarono la vittoria epocale e definitiva del fronte padronale su quello del lavoro di fabbrica, del mercatismo liberale sulla sua alternativa solidaristica ed egualitaria.
Da allora la sinistra, persa l’illusione di poter cambiare la società, divenne progressivamente un’altra cosa: l’appendice blandamente liberal-riformista e radical-libertaria di un capitalismo globalizzato ai cui imperativi ideologici (individualismo, competitività, edonismo consumistico) si era sostanzialmente arresa. 
Chissà, probabilmente tra le due cose, la trasfigurazione e crisi politico-culturale della sinistra storica e l’antifascismo utilizzato da quella odierna come una clava ideologica contro gli avversari politici del momento, come compensazione simbolica alle proprie frustrazioni elettorali, come tema di propaganda tanto ossessivo quanto strumentale, come risorsa mobilitante estrema in mancanza di altri temi per cui battersi in modo credibile, esiste un nesso.

Nel senso che se l’obiettivo ambizioso della sinistra, quando ancora sapeva leggere i movimenti profondi della struttura sociale sulla base di solide categorie d’analisi, era costruire il domani e la città futura, la sua odierna consolazione, rispetto ad un presente arido di soddisfazioni e che non si riesce più a comprendere nelle sue effettive dinamiche, consiste nell’ancorarsi alle proprie ataviche certezze ideologiche in modo talmente pedissequo e acritico, con un misto di sentimentalismo e intransigenza, da dare come l’impressione di voler riavvolgere forzatamente il corso della storia.  Curioso. La sinistra che accusa a ogni pie’ sospinto la destra di manipolare e riscrivere il passato, lei per prima sembra offrirne sempre più una rilettura pubblica settaria, moralistica e priva di sfumature, conformistica e schematica, tutta a misura delle battaglie politiche contingenti che combatte.

Il che si traduce, per capirci, nel prendere ciò che di nuovo e di inedito (e ahimè anche di preoccupante e pericoloso) va accadendo in Italia e nel mondo per poi infilarlo meccanicamente entro stampi antichi. Finendo così per darne, più che un’interpretazione realistica, una lettura facile e di comodo, al tempo stesso drammatizzante, opportunistica e manichea. Nell’attualità politica la sinistra non vede ormai altro che il ritorno ineluttabile, sotto mentite spoglie, del passato, a partire ovviamente dal fascismo inteso come fenomeno eterno e male politico per eccellenza. 

Cosa si nasconde dietro l’avanzata degli odierni partiti carismatico-populisti se non gli insegnamenti contenuti nel Mein Kampf hitleriano? È la tesi estrema di Stefano Massini nel suo più recente lavoro teatrale, tanto per non prendersela solo e sempre con le attualizzazioni mussoliniane che sono la specialità di Antonio Scurati. Il problema è se tutto questo diventa, da divagazione intellettuale eccentrica o da prodotto letterario più o meno di successo, programma d’azione politica di un partito, piattaforma culturale o vulgata propagandistica a prova di critica. Questo modo di appiattire il presente sul passato nasconde una buona dose di furbizia politica travestita da allarmismo a difesa di una democrazia i cui nemici implacabili sono sempre, guarda caso, i propri avversarsi nelle urne. Soprattutto comporta un grave rischio: quello di danneggiare, senza nemmeno rendersene conto, la nobile causa per la quale nominalmente ci si batte. 

Ne è appunto un esempio evidente l’uso fondamentalista e divisivo, con pretese di esclusività, che la sinistra fa ormai da anni dell’antifascismo come fenomeno storico che ha contribuito alla nascita della repubblica e del 25 aprile come festa pubblica nazionale. Il primo divenuto una patente di agibilità politica democratica concessa a discrezione da chi ne rivendica arbitrariamente il monopolio simbolico. La seconda trasformata in una festa di partito cui si accede ad invito e dopo aver superato il controllo all’ingresso dei buttafuori ideologici. L’effetto ottenuto, come si vede, è quello di aver reso un patrimonio sulla carta di tutti un oggetto costante di polemiche e una fonte di divisioni. Un capolavoro di autolesionismo, non si capisce quanto involontario o voluto. 
Ma la vicenda del monologo “censurato” di Scurati, subito diventato un tormentone mediatico a conferma che ai tempi nostri non si può censurare un bel niente, è istruttiva anche per altre ragioni. È infatti un concentrato straordinario delle ambiguità, furberie e miserie che caratterizzano l’odierna vita pubblica nazionale.

Basta farne un elenco sommario.

Colpisce ad esempio questa corsa di molti ambienti intellettuali a proporsi come martiri della libertà di pensiero in un Paese dove il massimo che può capitarti, nel mentre denunci con tono accorato la censura di Stato che si abbatte sulle tue idee, è che ti offrano la conduzione di un programma televisivo o un contratto editoriale con molti zeri. Visto che in alcune parti del mondo il dissenso espone davvero al rischio del carcere o della vita, un simile vittimismo a sfondo autopromozionale è più offensivo che sgradevole. Mettiamoci poi gli eccessi di zelo politico-burocratico di chi, dovendo occuparsi professionalmente di informazione e spettacolo, si preoccupa soprattutto di non dispiacere i suoi mandanti o padrini politici. In Rai purtroppo i confini tra potere e giornalismo sono da sempre troppo sfumati. Perché impedire a Scurati di leggere, anche se a pagamento, il suo testo scatenando il diluvio di conformistica indignazione che poi si è visto? Spirito censorio, ingenuità, incidente, dabbenaggine o zelanteria?

Terzo fattore. Da vicende che tanto clamore hanno sui media e sui social ci si aspetterebbe come conseguenza degli scossoni a livello di opinione pubblica. Ma di solito non accade mai nulla. Il che indica una cosa precisa. C’è uno scollamento grandissimo tra quel che accade nel micromondo della politica e dei media e quel che accade in quel macromondo spesso trascurato che chiamiamo società: la massa dei cittadini ha semplicemente altre priorità, in termini di preoccupazioni e interessi, rispetto alle minoranze che si compiacciono della loro autoriflessività.

Ancora. La polemica intorno a Scurati certifica il dominio ormai assoluto nella sfera pubblica nazionale dello spirito di gazzarra. In Italia non c’è più spazio per il confronto tra posizioni e argomenti, nel rispetto reciproco. Prevale semmai lo scontro senza esclusione di colpi tra tribù ideologiche e gruppi di ultras che si spacciano per circoli intellettuali. Ci si chiede dove stia l’utilità e il divertimento nel condurre in questo modo, secondo le logiche di un gigantesco e permanente talk show, la battaglia politica e delle idee. Infine, l’elemento più fastidioso di tutti. Non si capisce mai bene, in queste baruffe sui grandi valori che periodicamente esplodono un Italia, dove finisca l’impegno civile dell’intellettuale che tiene alla sua sacra libertà e dove comincino invece il marketing editoriale, l’indignazione a gettone e la militanza ideologica di partito segnata per definizione dal conformismo e dalla partigianeria. Un’unica, amara, consolazione. Tempo una settimana o due delle polemiche di queste ore non si parlerà più, a conferma di quanto spesso siano solo una grandiosa recita a soggetto.

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