Giuseppe Vegas
​Giuseppe Vegas

Il nodo del debito/ Le misure urgenti in difesa delle valute

di ​Giuseppe Vegas
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Sabato 4 Febbraio 2023, 00:21

Funziona ancora bene il sistema monetario internazionale incentrato sul dollaro? Di tanto in tanto qualche dubbio sorge sulla tenuta della supremazia della valuta americana in un mondo scosso dalla più grande crisi geopolitica del dopoguerra. Ma sono ipotizzabili alternative? E ancora: come potranno Stati sempre più indebitati proteggere il valore delle loro monete? Infine, quale sarà il futuro delle criptovalute? Sono temi non ancora all’ordine del giorno del dibattito politico di un mondo alle prese con gli effetti nefasti della pandemia e della guerra in Ucraina. Ma già si va prendendo coscienza, come si evince da uno studio di Credit Suisse, che anche in questo campo la realtà è profondamente cambiata.


Negli anni ‘70 del secolo scorso il dollaro rappresentava l’80% delle riserve monetarie globali. Oggi solo il 60%. Si tratta di un arretramento dell’egemonia dovuto a due fattori: il peso crescente delle economie dei Paesi emergenti, primo tra tutti la Cina, e la diminuzione del consenso riscosso nel resto del mondo dalle decisioni di politica monetaria di Washington.  Decisioni che risultano sempre più adottate avendo come principale riferimento gli investitori americani ed i problemi economici interni, piuttosto che i loro effetti sul resto del mondo. Ciò malgrado il fatto che, in un’epoca di accentuata turbolenza, le scelte di accrescere la liquidità o, soprattutto, di “stringere” il credito possano provocare conseguenze importanti sul livello dell’attività economica e dell’inflazione dei Paesi che commerciano con gli Stati Uniti o sono loro concorrenti, sostanzialmente costretti a replicarne le decisioni. Il tutto reso più incerto dalla recente politica delle sanzioni applicate, per ragionevoli motivi politici, ma tali da minare la certezza del diritto e quindi l’ordinato svolgersi dei traffici internazionali. Da qui un generalizzato malcontento e la ricerca di una via alternativa, che consenta al contempo di assicurare una ragionevole stabilità macroeconomica e di godere della fiducia da parte degli altri Stati.

Sia essa un ritorno, difficilmente realizzabile, all’epoca d’oro degli accordi di Bretton Woods, che permisero la ricostruzione del dopoguerra; sia la ricerca, anch’essa assai ardua, di una nuova via che possa garantire in qualche modo il mantenimento del valore degli asset patrimoniali e produttivi dei diversi partecipanti alla comunità internazionale. Se una moneta mondiale non sembra neppure proponibile, la strada per la diversificazione delle riserve valutarie inizia seppur lentamente a prendere corpo.

In questo quadro, mentre il peso dell’euro resta assai limitato, malgrado rappresenti tuttora l’area più ricca del globo, va avanzando un convitato di pietra, rappresentato dalla Cina. La circostanza che il renminbi stia entrando in molti portafogli internazionali è significativa, ma non vuole assolutamente dire che la valuta cinese sia in corsa per scalzare il dollaro. Si tratta molto probabilmente di una riallocazione che dipende dall’accresciuto peso internazionale di quel Paese, nell’ambito di tensioni geopolitiche che vedono la ricollocazione di molte aree del mondo a favore di una sfera di influenza cinese. Tuttavia, la circostanza che la Cina non abbia ancora ottenuto lo status di economia di mercato, a causa dell’influenza predominante delle decisioni governative su quelle delle imprese e degli investitori, rende insicuro l’utilizzo della sua moneta a scopo di riserva.

E qui arriviamo al problema che più preoccupa, quello della stabilità dei sistemi finanziari pubblici. Solo che si considerino le più recenti previsioni dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, entro il 2060 il debito pubblico medio degli Stati avanzati raggiungerà il 102 per cento del loro prodotto interno lordo, mentre quello degli Stati emergenti raggiungerà il 155 per cento, con una media complessiva del 142 per cento, a fronte del 49 per cento stimato per il 2035. Il che potrebbe comportare l’effetto di attribuire ai titoli di Stato la poco rassicurante qualifica di “titoli spazzatura “, di rappresentare cioè un investimento non solo ad altissimo rischio, ma soprattutto vietato al sistema bancario. Ne deriverebbe la conseguenza di travolgere il valore delle valute nelle quali si esprimono quei titoli, che rappresenterebbero null’altro che pezzi di carta diffusi da Stati falliti. Le conseguenze sulla stabilità mondiale sarebbero facilmente immaginabili. Ecco quindi che le criptovalute potrebbero assumere un ruolo di stabilizzazione dei mercati. Esse infatti, malgrado le criticità insite nella loro natura anarchica, circolerebbero sulla base di una accettazione fiduciaria da parte di prenditori ed investitori e godrebbero di un comune apprezzamento superiore a quello delle valute di Paesi sovrani tecnicamente falliti. È una prospettiva tragica, ma sarebbe ancora evitabile se le politiche fiscali, cioè quelle relative al controllo di entrate e spese, dei Paesi più esposti ne tenessero conto già da oggi.

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