Depositi e titoli di Stato, le trappole della Ue

di Roberto Sommella
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Lunedì 14 Dicembre 2015, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21:45
Predicava Luigi Einaudi: «Conoscere per deliberare». L’integrazione europea sta mettendo a dura prova questo supremo consiglio del grande economista. Se ne è avuta una recente prova con il caos sulle procedure di salvataggio delle quattro banche locali italiane, schiacciate tra l’imminente entrata in vigore della sciagurata normativa bail-in e i troppi veti di Bruxelles ad utilizzare il Fondo di tutela dei depositi bancari. Si rischia tra pochi mesi di averne una conferma su due questioni non proprio di secondo piano: la tutela dei depositi bancari e l’esposizione degli istituti di credito in titoli sovrani. Stiamo andando felicemente contro un muro per opera, guarda caso, della solita Germania, desiderosa di chiudersi in una egoista autarchia che stabilisce come ognuno nell’Ue dal gennaio 2016 si debba salvare da solo, manco fosse un naufrago o un prigioniero. Non ci sono sconti, si tratti di un depositante, di un’azionista, di una banca o, addirittura, di uno Stato. Ecco i fatti, da non credere.
La Bundesbank continua a non allentare la presa sui titoli di Stato. «Il debito sovrano nei bilanci bancari deve essere garantito dal capitale, come si fa con i debitori privati; ma ancora più importante è mettere un tetto all’esposizione a un singolo Stato», sostiene ad ogni piè sospinto Jens Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, e per questo Berlino appoggia il piano di Danièle Nouy, presidente del Consiglio di vigilanza Bce, che ha proposto un tetto all’esposizione sovrana delle banche pari al 25% del capitale. Il sostegno della Buba è arrivato nonostante il progetto di Nouy sia stato bocciato senza mezzi termini dal vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, in occasione di quello che è stato il contrasto più esplicito tra braccio monetario e quello di supervisione dell’Eurotower: Constancio ha ricordato che un limite al 25% del capitale comporterebbe la necessità di «capitale tier 1 aggiuntivo per 6 mila miliardi di euro» oppure «vendite di bond pubblici da parte delle banche per 1.600 miliardi». Tanto per capirsi, le banche italiane posseggono qualcosa come 400 miliardi in Bot e Btp e un limite simile, impossibile da far assorbire al mercato, rischia, se non troverà una ferma opposizione del governo Renzi e di tutti gli altri partners, di far esplodere una nuova crisi del debito pubblico. Eppure i valori (espressi in trilioni di euro) non hanno smosso Weidmann, il quale resta convinto, al contrario, che il tetto servirebbe per spezzare il legame pericoloso tra banche e Stati, invece di decretare la fine dell’Unione Europea (cosa che accadrà, perché di fronte a questo diktat sarà difficile dare torto persino a Marine Le Pen).
Gli italiani non capiscono tutto questo furore sull’esposizione delle banche nei confronti delle attività sovrane. Il possesso di titoli di Stato è incentivato dalle regole sulla liquidità e dallo stesso Qe della Bce, che entrerebbero quindi in contraddizione rispetto al tetto alle esposizioni. Inoltre la gran parte delle perdite delle banche causate dalla crisi sono arrivate dal settore privato (per circa 800 miliardi) e non dal pubblico. Le banche di altre aree geografiche, come gli Usa, sono piene di titoli di Stato, ma nessuno se ne preoccupa. In aggiunta, il legame tra banche e Stati di appartenenza continuerebbe a esserci anche se gli istituti non avessero neppure un Bot: un default sovrano avrebbe comunque conseguenze rilevanti per le banche così come per tutte le imprese di un Paese. Insomma, una catastrofe.
Ma Berlino, non paga, respinge anche una seconda ipotesi, strettamente collegata alla gestione comunitaria delle crisi bancarie e di cui si discute in queste settimane, dopo che 10.500 risparmiatori italiani si sono trovati azzerati i loro bond non garantiti emessi da Carichieti, Banca Etruria, CariFerrara e Cassa Marche: l’istituzione di un Fondo europeo per la tutela dei depositi. Qui davvero i tedeschi non ci stanno, perché nella loro mentalità si devono socializzare solo i profitti dall’appartenenza all’Unione e non rischi. Eppure la Commissione Ue - che, non paga della confusione, ha appena messo in mora l’Italia per non aver ancora ottemperato ai primi passi per arrivare alla centralizzazione delle garanzie sui c/c (e c’è da dire: menomale!) - propone non proprio una garanzia europea sui depositi, che pure sarebbe necessaria per una vera Unione bancaria, ma un fondo congiunto di riassicurazione dei sistemi di tutela dei depositi oggi presenti nei Paesi. La riassicurazione sarà legata anche a condizioni che impediranno comportamenti opportunistici a livello nazionale ma il fondo non è capiente a sufficienza per tutti i depositanti europei. Anche queste proposte hanno ricevuto i primi commenti negativi nel mondo bancario tedesco. La Germania è contraria anche ad altri progressi nell’Unione bancaria, come la creazione di una protezione comune con cui sostenere, in caso di necessità, il fondo di risoluzione alimentato dalle banche e utilizzabile per le crisi degli istituti.
Questo braccio di ferro tra Bruxelles e Berlino comporterà una sola cosa: un’armonizzazione scomposta delle normative. Senza interventi correttivi centreremo il non invidiabile risultato di aver ceduto sovranità monetaria per aver ridotta la capacità di finanziarsi di uno stato che ancora oggi dipende per 400 miliardi di euro l’anno dalle vendite dei suoi bond pubblici. E nello stesso tempo metteremo nelle mani degli azzeccagarbugli comunitari tutti i depositi dei risparmiatori italiani (oltre 500 miliardi di euro), che intanto dovranno sottostare alle nuove norme sui salvataggi bancari senza avere certezze sul futuro delle garanzie sui loro soldi. Direbbe un attore in un celebre spot: what else? O se preferite: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato, siamo in Europa.
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