Michelle Bachelet, ex presidente del Cile e commissaria all'Onu: «Senza donne non possono esserci democrazia e pace»

La politica è tra i possibili candidati a diventare segretaria generale delle Nazioni Unite

Michelle Bachelet, ex presidente del Cile
di Elena Marisol Brandolini
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Mercoledì 24 Gennaio 2024, 09:59 - Ultimo aggiornamento: 25 Gennaio, 07:33

Michelle Bachelet, 72 anni, è una politica socialista cilena.

La prima donna ad essere stata eletta presidente del suo Paese. Detenuta e torturata durante la dittatura militare, rientrò in Cile dall’esilio nel 1979. Dopo essere stata ministra della Sanità e della Difesa nel governo Lagos, Bachelet nel 2006 divenne presidente del Cile (fino al 2010 e dal 2014 al 2018). Chiamata a dirigere la neonata Agenzia dell’Onu sulle donne, nel 2010, tornò alle Nazioni Unite nel 2018 (fino al 2022) come Alta Commissaria per il Diritti Umani. Ora si parla di lei anche come candidata a segretaria generale delle Nazioni Unite, sarebbe la prima donna. In questi giorni Bachelet è stata a Madrid per la presentazione dello studio del GWL (Global Women Leaders) Voices, l’associazione presieduta da Susanna Malcorra, ex ministra degli Esteri argentina. All’evento, a cui ha partecipato anche Hillary Clinton, ex segretaria di Stato degli Usa, si è discusso di donne e multilateralismo. Secondo il documento presentato, dal 1945 ad oggi, solo il 13% dei leader eletti a capo dei più importanti organismi multilaterali nel mondo è stato rappresentato da donne.

Quali questioni sono state affrontate a Madrid?

«GWL Voices è un’organizzazione di donne presenti in organismi multilaterali.

Lavora per incrementare la partecipazione femminile nel multilateralismo pensando che le donne siano determinanti nel farsi carico di conflitti esistenti. C’è stato un incremento della presenza delle donne, ma c’è ancora molto da fare. Nella politica la partecipazione in alcuni casi è diminuita. C’è una violenza di tipo politico, per cui le donne non si sentono motivate a stare nei luoghi delle decisioni. A quasi 30 anni dalla Conferenza mondiale di Pechino sulle donne, dobbiamo ragionare per individuare strategie per le pari opportunità tra i sessi. Sono convinta che senza le donne non c’è una democrazia piena, non c’è una pace piena, perché le donne non solo sono vittime dei conflitti ma possono essere parte della soluzione».

Cosa significò essere la prima donna presidente del Cile?

«Incontrai tutti gli ostacoli che trovano le donne nelle carriere politiche di alto livello. Una volta eletta però si generò un’aspettativa importante perché davo priorità all’eguaglianza di diritti e di opportunità tra i sessi e la prima cosa che feci fu istituire un governo paritario tra donne e uomini. Mi occupai dei settori in cui la diseguaglianza era più profonda. Affermando, perciò, che era possibile per una donna essere presidente».

Da presidente del Cile gestì la crisi del 2008 con politiche di giustizia sociale e di rafforzamento del welfare. Perché scelse questa via?

«Molte delle riforme erano parte del mio programma elettorale, il sistema previdenziale era pessimo e continua a esserlo, perché non riuscimmo a fare tutto. Feci la riforma tributaria prima della crisi economica, perché dissi che per spese permanenti, per migliorare l’istruzione e la sanità, c’era bisogno di entrate permanenti. Nella crisi approvammo un pacchetto di misure che l’Economist definì come il quinto migliore del mondo per la sua completezza, introducendo politiche che sostenevano le donne nella disoccupazione. Per quanto riguarda le pensioni, operammo per separare la congiuntura economica dai benefici sociali evitando che fossero i più poveri e la classe media a sopportare il costo della crisi».

In UN Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, ha lavorato contro la violenza. Perché c’è un così alto numero di femminicidi?

«Con la pandemia si è generata una situazione complessa, perché la donna vittima di violenza viveva a fianco del suo aggressore, in diversi Paesi vennero chiusi i centri rifugio e aumentarono molto violenza e femminicidi. Noi dicevamo che erano necessarie le tre P, prevenzione, protezione e produzione di servizi. Ma poi verificammo che spesso i processi per violenza sessuale non avanzavano o le donne ritiravano le denunce, ossia che il livello di efficacia della giustizia era molto basso. Cominciammo a lavorare con gli organi di giustizia di alcuni Paesi, sollecitandoli ad avere una prospettiva di genere. Il problema è anche che gli interventi di sostegno sono spesso brevi e poi c’è una questione che riguarda i bambini oggetto di violenza o che hanno visto le loro madri vittime di violenza. La violenza contro le donne ha conseguenze immediate e future, necessita di uno sguardo integrale».

Lei è stata vittima della dittatura di Pinochet. Quando fu ministra della Difesa lavorò a una politica di riavvicinamento delle vittime della repressione con le Forze Armate: come ci riuscì?

«Nella mia vita ho sofferto molto dolore, molta rabbia. Quando mia madre e io tornammo in Cile dopo l’esilio pensammo che quello che noi avevamo sofferto nessuno mai più avrebbe dovuto patirlo. Cominciammo a lavorare sull’idea dell’amicizia civica, nel senso che seppure non ci fossimo messi d’accordo sul passato, dovevamo concordare sul fatto che non tornasse a ripetersi e che la ricostruzione della democrazia dipendeva da tutti noi. La maniera di realizzarlo era nel dialogo tra potere esecutivo e militari e nel riavvicinamento tra la società civile e il mondo militare. In Cile ha funzionato. Lo scorso anno, però, nell’anniversario dei 50 anni del golpe, alcune forze politiche hanno cominciato a dire che era stato necessario e che non c’era stata violazione dei diritti umani. Questo è grave, perché l’unica maniera per evitare il ripetersi di quegli eventi è arrivare a un accordo su qual è il minimo fondamentale che ci permette di convivere in pace».

Un tempo il cambiamento era rappresentato dalla sinistra, oggi spesso si cerca a destra: perché?

«Quando c’è un alto livello di insicurezza personale, le persone spesso credono che i problemi si possano risolvere solo con misure autoritarie. Leggo molti sondaggi in cui sempre di più le persone, soprattutto giovani, mettono in questione una democrazia che non è del tutto efficiente e preferiscono un governo autoritario. Questa è una sfida per la democrazia, che dev’essere efficiente e deve trasmettere i risultati che la gente si aspetta da un governo democratico. E poi c’è la narrazione: la sinistra parla molto più col cervello mentre la destra parla più alle emozioni e perciò risulta più efficace, utilizza un linguaggio semplice e convincente».

Lei ha detto: «la speranza deve vincere la paura», che vuol dire?

«Gli esseri umani aspirano a un futuro migliore. “La nostra agenda comune” presentata dalle Nazioni Unite prima della pandemia era una buona strada, ma poi fu accantonata. Bisogna riprendere gli elementi di quell’agenda per spingere nella direzione corretta».

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