25 Aprile, la storica Michela Ponzani: «Nella Liberazione ricordiamo le donne che lottarono anche per i propri diritti»

La docente di Tor Vergata: «L’impegno delle donne tra il 1943 e il ‘45 fu rivoluzionario per l’opposizione a una società discriminante. Sognarono già un mondo migliore»

25 Aprile, la storica Michela Ponzani: «Nella Liberazione ricordiamo le donne che lottarono anche per i propri diritti»
di Raffaella Troili
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Mercoledì 24 Aprile 2024, 12:44 - Ultimo aggiornamento: 25 Aprile, 18:16

La Resistenza è iniziata con loro. Ma non è mai più finita.

Alle partigiane in prima linea e alle altre dietro le quinte il merito di aver scelto di combattere per un ideale contingente ma anche per aver lasciato in eredità un messaggio dirompente: indietro non si torna, le donne non “assistono” al divenire della Storia, né sono solo vittime privilegiate. Ma parte attiva dei cambiamenti sociali e delle lotte che ne derivano.

Michela Ponzani, storica e saggista, parteciperà attivamente a questa ricorrenza.
«Dopo una lezione sulle Fosse Ardeatine alla Festa della Resistenza di Roma, il 23 ad Arco di Travertino, dove fu molto attivo il movimento partigiano. Il 25 aprile sarò a Civitella Val di Chiana, teatro della strage nazista. Scelta dal presidente Sergio Mattarella per la cerimonia della Festa della Liberazione. Terrò un discorso sulla strage e la memoria divisa».

Poco si è detto del ruolo chiave delle donne.
«Mentre se c'è qualcosa di rivoluzionario nella Resistenza è proprio incarnato dalla scelta antifascista che fecero le donne, le ragazze che tra il ‘43 e il ‘45 decidono di aderire a formazioni partigiane, animate da un moto rivoluzionario di libertà che è anche una guerra privata.

Non combattere solo l’occupante. Si vuole andare a combattere contro le discriminazioni di genere e tutto quel che la società patriarcale gerarchica fascista aveva imposto alle nuove generazioni, dove l'uomo poteva comandare su moglie e figli».

Con azioni armate e il rischio di gravi ritorsioni, rivendicano la parità con gli uomini.
«Cito le memorie di Carla Capponi o Maria Teresa Regard, che ebbe uno scontro di genere anche con i compagni di banda. Rivendicando il ruolo di portare armi. Per una donna un atto di estrema trasgressione. Elemento che le porta a rischiare di più in caso di cattura, oltre a essere torturate sotto interrogatorio, racconteranno di violenze sessuali indicibili nei processi post guerra e nelle memorie. Molti anni più tardi, Teresa Mattei, nel processo Priebke, (il fratello si impiccò in carcere per non tradire sotto tortura), racconterà degli stupri subiti dai tedeschi».

Una donna combattente, un doppio affronto.
«La violenza che si scatena nei confronti delle donne è ancora più indicibile. Va a punire attraverso l’oltraggio del corpo, la ribellione di chi ha alzato la testa. Significato simbolico usato per anni, anche questo lo spirito della Resistenza».

Che non è stata fatta solo da ardite combattenti.
«Donne comuni senza armi, madri di famiglia hanno dato cibo e medicinali ai soldati, ai renitenti, nascosto antifascisti e partigiani. Una rete anonima fondamentale. Saranno il bersaglio strategico di quella che i tedeschi chiamano la guerra ai civili: sole, i mariti al fronte, pronte a correre nei rifugi, in fila per il pane e la farina. Sono loro che assalteranno i forni, rovesceranno la farina bianca, quella buona, destinata ai tedeschi. Falcidiate per questo, come Caterina Martinelli al Tiburtino terzo, madre di sei figli, uccisa con la piccola di pochi mesi in braccio. Sempre loro, le donne si batteranno per dare un corpo e un nome ai familiari vittime delle Fosse Ardeatine».

Un punto di non ritorno.
«Affrontano una guerra che è una guerra di sterminio totale ai civili, che le espone a forme di violenza inaudita e la cosa importante e che si ribellano al fatto che per secoli in guerra il corpo delle donne era stato bottino e preda degli eserciti. Lanciano il messaggio: “noi non siamo più spettatrici, prendiamo le armi, rivendichiamo il diritto di lottare per la nostra libertà presente e futura”. Rianimeranno poi la politica del dopo guerra. La società italiana l’hanno svecchiata le donne che hanno fatto la guerra, che immaginavano già prima un mondo migliore».

E ora, ce l’hanno fatta?
«Non sono molte ma sempre più donne hanno conquistato ruoli importanti nonostante prevalga comunque un modello culturale che impone loro la cura dell'uomo e della famiglia a tutti i costi. Essere donna implica necessariamente un modello di cura lo si è visto di nuovo in pandemia: quello che dico sempre alle mie studentesse, le più attente e critiche, è di prepararsi a rinunciare anche a un modello per cui l'amore e la cura dell'uomo che avrete, deve prevalere su tutto. Ma è un punto di rottura che ancora dobbiamo provocare».

Nel frattempo le guerre dilagano nel mondo.
«Sembra ancora di essere nel primo ‘900, in entrambi gli schieramenti, se penso a Gaza. Presi di mira ospedali, donne, bambini. Crimini di guerra non bisogna temere di dirlo. Le donne devono trovare la forza di ribellarsi all’esser considerate bersaglio da colpire. E l’Occidente porsi il problema, sostenere i civili. Ma la guerra che pensavamo non ci riguardasse più è in Europa da due anni, con un conflitto che riguarda la nostra contemporaneità».

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