Dieci anni sono tanti. Dov’erano i diari fino a oggi?
Qui in casa! Una massa enorme di fogli, di taccuini, di bozze dei suoi libri dal “signor Lenin” in poi. C’erano anche molte sue lettere scritte a me, di cui conservava le copie».
L’attesa è stata voluta o casuale?
«Non si può pubblicare tutto insieme, c’erano tante altre cose da fare. Quando finalmente ci ho pensato non è stato facile scegliere a chi affidarli. Poi ho capito che Alen Loreti, che aveva curato i due volumi pubblicati da Mondadori nei “Meridiani” conosceva gli scritti di Tiziano più di me».
Quando ha iniziato suo marito a scrivere i diari?
«Nel 1984, per un motivo banale e un altro molto serio. Il primo è stato il passaggio dalla macchina da scrivere al computer, ed è stato più facile avere una copia di tutto. Il secondo è stata l’espulsione dalla Cina. Per Tiziano è stata un’offesa, una ferita profonda. E insieme il crollo di una speranza, quella nel socialismo, che per la nostra generazione era stata importantissima».
Dopo l’espulsione dalla Cina, suo marito si è occupato molto del Giappone. Ne ha descritto il capitalismo spietato, ma non lo ha criticato.
«Tiziano credeva nel suo mestiere di giornalista, non voleva mischiare il suo giudizio alla realtà. Ma in Giappone ha sofferto. Vedere un pezzo dell’Asia trasformarsi in una brutta copia degli Stati Uniti lo ha fatto cadere in depressione. Ne è uscito scrivendo “Un indovino mi disse”. Un libro all’antica, nel quale la cultura asiatica aveva un ruolo centrale».
La malattia ha cambiato il suo modo di tenere i diari?
«Direi proprio di no. Quando ha scoperto di avere un tumore Tiziano ha smesso di fare il giornalista, ma ha continuato a viaggiare molto per l’Asia. Ha accettato la malattia, ha deciso di scrivere del suo avvicinarsi alla fine. Nei diari e nei libri si è sentito libero di approfondire, di scegliere gli argomenti».
Prima non era libero di farlo?
«Solo in parte. Da esperto dell’Estremo Oriente non poteva scrivere dell’Islam, invece dopo lo ha fatto. Amava l’adrenalina del giornalismo, ma non sopportava più le scadenze, il dover passare da un argomento all’altro. Anche nei suoi libri scriveva da giornalista, lasciando da parte sé stesso. Alla fine invece si è sentito libero. Nei diari trionfa il suo piacere di vivere, di vedere, di viaggiare, di incontrare gente strana».
Parlavate di queste cose?
«Quando faceva il giornalista, ed era contento di esserlo, io invece tenevo un diario. E lui mi ha detto più volte “ti invidio, tu puoi riflettere, io devo subito passare a qualcos’altro”. Alla fine aveva più tempo anche lui».
A quando risalgono le ultime pagine dei diari?
«Ha scritto fino alla fine, ma negli ultimi mesi era concentrato su “Un altro giro di giostra”, voleva finirlo prima di morire. Non so quali pagine abbia scelto Alen Loreti come conclusione di “Un’idea di destino”».
Rileggendo in questi anni i diari, ha scoperto qualcosa di suo marito che prima non conosceva?
«Ho vissuto tanti anni con Tiziano, conoscevo bene la sua scrittura e il suo lavoro. I dieci anni dopo la sua morte mi sono serviti a conoscerlo meglio, a capire la profondità dei suoi pensieri».
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