I diari da Hammamet l'occhio lungo di Craxi il ribelle

I diari da Hammamet l'occhio lungo di Craxi il ribelle
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Sabato 20 Settembre 2014, 06:10
IL TACCUINO
Bisogna riconoscere che, pur nel rancore di chi si sentiva una vittima sacrificale, Bettino Craxi ebbe la lucidità di capire da subito - come dimostrano questi suoi diari, in parte inediti, scritti da Hammamet Io parlo, e continuerò a parlare alcune tare genetiche del sistema politico tuttora vigente. Di questa Seconda Repubblica eterna incompiuta, su cui grava irrisolto il rapporto tra politica e magistratura (e Craxi notò anzitempo: «La giustizia politica è un germe maligno che inquina la democrazia»), che soffre del distacco tra partiti e popolo ed é esposta perciò al dilagare dell'anti-politica, e che nell'Europa crede di vedere la propria salvezza. Ma, parola preveggente del Bettino tunisino, «l'Europa per l'Italia non sarà un Paradiso terrestre, se ci si va supinamente».
Chiamare Craxi l'oracolo di Hammamet, oltre che inutilmente enfatico, sarebbe fare un torto a tanti suoi torti personali e politici. E tuttavia, una lungimiranza d'analisi si riscontra in queste pagine di appunti e spunti, curate da Andrea Spiri per Mondadori. Se Craxi non parlava di Renzi (allora poco più che bambino), parlava però di tutte le condizioni già in nuce nei primi anni '90 e che avrebbero portato prima o poi al collasso della sinistra (e sarà Renzi che riuscirà a rianimarla?).
INDIGNATI
Se non parlava di Grillo, che allora era soltanto un comico anti-socialista, il Bettino tunisino descriveva il mito della «gente indignata» che avrebbe portato, a colpi di «false rivoluzioni», l'Italia verso le braccia di qualche personaggio demagogico alla Grillo. Di Berlusconi, Craxi parla, eccome, in questo suo zibaldone. Lo tratta con il distacco di chi si sente abbandonato. Lo descrive come un "ingenuo" che non capisce, per dilettantismo, quanto fin dal '94 la «giustizia politica» gli stia scavando la fossa. Ma quando Bettino immagina che il suo ex amico Silvio «farà la fine di Craxi», sbaglia: sottovalutandolo e non potendo immaginare che, al contrario di lui morto esule in Tunisia, Berlusconi sarebbe diventato pur con tutti i suoi guai un padre costituente.
Comunque, il pregio di questo libro non sta tanto nei giudizi a volte erronei sulle persone (il finto furbo D'Alema, il "bidone" Prodi, il "compagno Fini" con le stimmate di "traditore" di Berlusconi evidenti fin quasi dall'inizio o Napolitano che «non poteva non sapere» dei rubli al Pci) e non sta neppure nelle analisi non nuove sul "processo sommario" subito da Craxi e dall'intera Prima Repubblica che a un certo punto il leader socialista ammette esser stata una «fogna» dalla quale è fuoriuscito «il topolino anzi il topaccio» chiamato Seconda. Il gusto, tragico, di queste pagine è nella forza con cui l'autore, tra rabbia, rassegnazione e speranza di un improbabile ricominciamento politico, lotta contro lo spirito dei tempi su cui «sventola trionfante la bandiera del nuovismo». Il passaggio di gran lunga più bello è questo: «Non consentirò ai vincitori di scrivere la Storia. Non posso far altro, ma la battaglia della Storia non gliela faccio vincere». Da questo punto di vista, la sua battaglia Craxi l'ha vinta. Perché queste sue pagine agiscono come un tarlo per chi è appassionato di storia. E fungono da sonda per chi voglia addestrarsi nel carattere di un uomo politico in questo - anche in questo - per nulla somigliante a gran parte dei colleghi: «Io non conosco la felicità. La mia vita è stata una corsa ad ostacoli, e non mi sono mai fermato per dire a me stesso ora sei un uomo felice».
Mario Ajello
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