Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

L'editoriale / Quelle spese dello Stato che generano ricchezza

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 12 Aprile 2024, 00:24

Chi non conosce i tempi della politica e dell’economia fa probabilmente fatica a capire come aprile sia già un mese fondamentale per il bilancio futuro dello Stato. Eppure, già lo scorso martedì 9 aprile, il Consiglio dei ministri ha approvato il Documento di economia e finanza (Def), la pietra su cui strutturare i conti dell’anno e triennio prossimi.
Il momento non è dei migliori: ne risulta quindi un Def più orientato alla difesa dell’esistente, per evitare di vanificare benefici e sacrifici di questi anni, e solo minimamente orientato al futuro. La pandemia, la guerra e l’inflazione, ovviamente, ci hanno messo del loro. Ma come spesso accade nella storia del nostro paese, questa ristrettezza è anche responsabilità nostra. Un po’ per pigrizia, perché chi ha governato dal 2014 al 2020 ha dedicato poco sforzo al risanamento dei conti. E oggi, di fronte alle nuove regole europee di stabilità, arriviamo con l’affanno. Già a partire da quest’anno, infatti, è probabile che il Paese dovrà fare i conti con una procedura di infrazione che ridurrà le possibilità di corso a ulteriore deficit. Questo significa che, per trovare le risorse necessarie a garantire gli obiettivi minimi di questo Def (la decontribuzione e la riforma fiscale), il legislatore, di qui al prossimo dicembre, potrebbe dover mettere mano alla forbice (taglio della spesa) o alla siringa (aumento delle imposte). Oltre alla pigrizia, c’è anche la vicenda del cosiddetto “superbonus” a peggiorare la situazione. I suoi effetti positivi sono stati evidentemente sovrastimanti e i suoi costi, al contrario, sono stati sottostimati.

I numeri sono da pelle d’oca: circa 120 miliardi di detrazioni fiscali maturate in pochi anni, come certificato dall’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile. È l’equivalente finanziario di oltre il 60% del Pnrr, giusto per avere un termine di paragone. E considerando tutti i bonus fiscali edilizi, non solo il superbonus, si supera addirittura il Pnrr: 220 miliardi di costo per lo Stato. Ma come è potuto accadere tutto questo? In attesa che qualcuno, coraggiosamente, voglia provare a fare luce sulla vicenda, anche ricorrendo a una commissione parlamentare ad hoc, assumiamo pure che quella decisione fosse stata presa in assoluta buona fede (e non abbiamo motivi di pensare diversamente). La logica di interventi del genere è quella di stimolare l’attività economica, attraverso, appunto, degli sconti fiscali, così che l’aumento di spesa venga più che compensata da aumento di reddito prima e di gettito fiscale poi.

Tecnicamente, questo meccanismo è noto come “moltiplicatore keynesiano”. Il problema è che mentre la teoria sottostante al moltiplicatore è piuttosto meccanica e intuitiva, la sua applicazione pratica è soggetta a continue verifiche. In altri termini, la domanda empirica a cui bisogna rispondere è di quanto può davvero aumentare il reddito nazionale per ogni euro speso dal governo. La risposta non è univoca né tantomeno scontata e si basa su decenni di esperimenti passati che gli economisti usano per formare le loro stime. Sulle quali però gli stessi economisti spesso non concordano. Insomma, una materia non semplice e ancora avvolta da una buona incertezza. Come dovrebbe quindi spendere i suoi soldi, lo Stato? Innanzitutto, ci sono spese che devono garantire la redistribuzione e la giustizia sociale: per queste, l’ampiezza del moltiplicatore è ininfluente. Diventa invece rilevante per gli investimenti pubblici, che hanno come finalità proprio quella dello stimolo economico. Al momento, per esempio, gran parte del dibattito sugli investimenti pubblici si concentra sul Ponte di Messina, con toni sia positivi sia negativi. Se le vie di comunicazioni fisiche, quando efficaci, sono certamente foriere di sviluppo, ancora di più lo sono, e lo saranno, quelle digitali. Se si volesse scommettere su un settore in crescita e soprattutto fondamentale per rimanere tra le aree economiche di riferimento mondiali, tale sembra essere quello di semiconduttori e microchip, su cui si basano già le principali tecnologie in uso e che saranno sempre più importanti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un campo che vede tanto l’Italia quanto l’Europa ancora in ritardo rispetto, ad esempio, a Cina e Stati uniti. Proprio perché le risorse a disposizione sono poche, è fondamentale che il tema diventi un impegno dell’intera Unione e ci si augura possa caratterizzare l’imminente campagna per le elezioni europee. Starà invece ai singoli paesi investire nella formazione di un’altra tipologia di materia prima per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Un settore che perfino Adam Smith catalogava come investimento e che invece è spesso visto come semplice spesa corrente, se non addirittura come scambio elettorale: quello dell’istruzione.

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