Francesco Grillo
Francesco Grillo

L'analisi / Le riforme necessarie per l’Europa

di Francesco Grillo
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Martedì 17 Maggio 2022, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 00:04

«Professore, perché quel Trattato è scritto in maniera quasi incomprensibile?». «In maniera tale che i cittadini non lo comprendano. E non chiedano un altro referendum». La risposta che, Giuliano Amato, uno dei più sottili e appassionati studiosi della storia dell’integrazione europea, diede alla domanda che mi capitò di fargli a Siena più di dieci anni fa, fornisce una delle migliori spiegazioni di quello che è stata la natura del processo di costruzione dell’Unione e delle ragioni per la quale riformarne i trattati è impresa difficile. Ed è da quelle parole che deve partire la riflessione su come dare sostanza all’appello che Emmanuel Macron lancia quando ricorda che è urgente creare una “comunità politica europea”: un’Unione più politica che superi le contraddizioni di un’Europa che – al di là delle frequenti autocelebrazioni - deve reinventarsi per poter sopravvivere. Per riuscirci è arrivato il momento di sciogliere i nodi gordiani attorno ai quali gli europei ballano da anni.
Quanto larga deve essere un’Unione che sia sufficientemente coesa per sviluppare una propria capacità militare autonoma, considerando che l’idea stessa di esercito è stata quella attorno alla quale consolidò l’idea degli Stati “moderni” tra diciottesimo e ventesimo secolo? Ne farà parte l’Ungheria e la Polonia che sembrano non allineate su alcuni dei valori che definiscono l’Unione, considerandone il grande valore strategico visto che dell’Unione sono il confine con la Russia? È possibile immaginare gruppi di Paesi diversi che accettino livelli di integrazione più completi per diverse politiche comuni (libera circolazione, mercato comune, moneta unica, difesa)? È sufficiente l’abolizione dell’unanimità che porterebbe alla creazione di maggioranze diverse per diverse decisioni? Come faccio a convincere i Paesi più piccoli (sono 14 su 27) che si oppongono persino all’apertura di una discussione dei trattati? Come rendere più veloci i nuovi allargamenti (ad esempio, all’Ucraina) proteggendosi dall’ipotesi che dopo il matrimonio i sodalizi si deteriorino? E, infine e non meno importante, può bastare – come ai tempi di Amato – un’élite illuminata per cambiare l’Europa? O dobbiamo, invece, rassegnarci a passare attraverso un faticoso dibattito che coinvolga tutti e dia a decisioni così importanti una legittimità popolare più forte?
A rispondere a queste domande ci ha provato la “Conferenza sul futuro dell’Europa” che è durata un anno e che Macron ha chiuso il 9 maggio a Strasburgo. E sono queste alcune delle questioni che, proprio a Siena, tra qualche giorno – tra il 26 e il 28 maggio – verranno discusse in un incontro organizzato dall’Università di Siena e dal Think Tank Vision che chiamerà a raccolta tutti i centri studio dei principali gruppi politici europei (dai conservatori della quale fa parte anche Giorgia Meloni fino ai verdi e ai liberali). Si tratta, sostanzialmente, di dare sostanza ad un principio che quasi nessuno contesta: crisi come quella ucraina o come quella della pandemia, sfide come quella posta dalle piattaforme digitali americane e cinesi, transizioni difficili come quella ecologica e energetica, si affrontano solo se diamo più efficienza alle istituzioni comunitarie. E tuttavia come si realizza ciò prima che sia troppo tardi? Tre principi sembrano poter definire un approccio che sia all’altezza dei tempi nuovi.
Innanzitutto, va definitivamente accettata l’idea che integrazioni più piene si fanno con chi ci sta. Non necessariamente è vera la pigra idea che il cerchio dei Paesi destinati a integrarsi di più, corrisponda ad un nocciolo duro fatto dei sei fondatori (Italia, Francia, Germania e i tre del Benelux): furono proprio i cittadini francesi e quelli olandesi a rigettare la Costituzione europea nel 2005 e a convincere Giuliano Amato a dover cercare un trattato meno rumoroso. È possibile, in questo senso, che ci possa essere spazio anche per integrazioni meno impegnative che recuperino il Regno Unito e accelerino il processo per il Montenegro o per l’Ucraina.
In secondo luogo, è giustissima l’idea di dover dare – come dice Macron – una dimensione più nettamente politica ad una comunità che nacque economica. Per riuscirci però dovremo avviare un dibattito tra cittadini che non sia più definito dall’appartenenza ad uno Stato: liste transnazionali e, persino, referendum intelligenti sono indispensabili se vogliamo uscire dall’ambiguità. Non necessariamente l’Europa perde ai referendum: in 56 consultazioni, 47 volte ha prevalso il Sì all’Unione (anche se ci furono, appunto, dolorose eccezioni).
Infine un tema non meno importante è come dotare un’Unione a più “velocità”, della flessibilità che consentano ad un Paese di cambiare velocità idea (è successo con il Regno Unito) o ai propri partner di poter chiedergli di spostarsi ad un livello meno impegnativo di integrazione (come oggi forse faremmo con l’Ungheria). Devono esserci in questo senso meccanismi predefiniti che disciplinino la separazione senza i traumi vissuti con la Brexit. E ciò renderebbe, del resto, meno difficile gli stessi nuovi allargamenti che ci chiedono. L’Unione Europea che abbiamo è il più grande dei sogni di una generazione larga che arriva fino alla nostra. Per sopravvivere, però, è il momento di abbandonare il compromesso al ribasso, guidato da diplomatici e funzionari della Commissione che sono bravi ma, per definizione, non sono pagati per rischiare e tendono a procedere per passi piccoli. È il momento di porre il cambiamento come imperativo morale. Di ricordare che il ricordo del passato non basta ad una comunità che ha bisogno di soluzioni. Tocca, di nuovo, a politici che devono dimostrare di essere all’altezza di quelli di un passato glorioso e ad intellettuali coraggiosi assumerne la leadership.
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