Bentornati al gioco dell’oca della riforma impossibile. Le polemiche in corso sul cosiddetto premierato impongono una domanda: riuscirà l’Italia a perdere anche quest’ennesima occasione (l’ultima?) di dare stabilità ai propri governi? Purtroppo la confusione del dibattito in corso non lascia presagire nulla di buono. Proviamo, allora, a ricostruire l’ordine dei fatti. Prima casella: i dati della realtà. Dal 1948 ad oggi, cioè in 75 anni, l’Italia ha cambiato 68 governi. In media uno ogni 400 giorni! Se poi si pensa che qualcuno è riuscito a rimanere in carica anche per tre anni il calcolo si fa ancora più impietoso.
Difficile, dunque, sostenere che non sia necessaria una riforma che inverta una rotta pericolosa per la tenuta del sistema. Anche di quello economico. Il fatto è che, dopo il crollo della Prima Repubblica e dei partiti di massa, e dopo il sostanziale fallimento della Seconda, le cose si sono ancor più aggravate e, negli ultimi tempi, il gioco parlamentare si è fatto sempre meno “ordinato” e sempre meno legato alle scelte degli elettori. Prova ne sia il reiterato ricorso a governi tecnici e, soprattutto, l’ultima paradossale legislatura nella quale si è passati, disinvoltamente, dal governo gialloverde (Lega e 5stelle) a quello giallorosso (5 stelle e Pd). A fronte di questo black out sistemico ogni riforma (Berlusconi, D’Alema, Renzi) orientata a dare maggiore stabilità al Paese è stata ogni volta bocciata. Quasi sempre a causa dei medesimi veti ideologici che si ripropongono oggi contro il premierato.
Seconda casella: la novità. Giorgia Meloni propone, nel programma elettorale, l’obiettivo di un sistema semi presidenziale alla francese. Apriti cielo! Tornano a risuonare gli allarmi resistenziali contro la dittatura dell’“uomo solo al comando”, come se gli italiani fossero meno intelligenti e democratici dei cugini d’oltralpe. Così il governo, giustamente pensando che una riforma costituzionale deve essere il più possibile condivisa, convoca un tavolo con le opposizioni e, sapendo che una parte di essa (il terzo polo) è orientata all’elezione diretta del premier (sul modello dei Comuni), si incammina verso tale soluzione. Ma non serve: perché la contestazione si sposta subito sulla riduzione dei poteri del Quirinale.
Terza casella: la mediazione. Nel tentativo di superare comunque “l’obiezione Quirinale” il governo introduce una norma che prevede la possibilità per il Capo dello Stato, in caso di crisi della maggioranza, di nominare premier un secondo esponente della coalizione vincente. Punto assai controverso. Tanto che sembra aver ragione La Russa a sostenere che, a furia di mediare, il testo sia stato peggiorato. In effetti, se alla fine si dovesse andare a un referendum confermativo, converrebbe al governo rivedere tale norma perché un conto è chiedere agli italiani se vogliono eleggere direttamente il loro premier, altro conto è coinvolgerli in discussioni tecnicistiche.
Ultima casella: in un Paese civile, prendendo atto che il governo ha rinunciato alla “sua” riforma ed è disposto al dialogo, l’opposizione discuterebbe nel dettaglio, con animo sereno, il testo proposto per arrivare a un risultato migliore e condiviso (compresa una nuova legge elettorale). Macché. La politica abdica al suo compito. Prevale ancora una volta la “guerra dei bottoni” delle contrapposizioni ideologiche e così il gioco dell’oca continua. Perciò, se il governo tiene davvero alla riforma, deve esser capace di produrre una svolta che faccia uscire la riforma dallo stallo. Altrimenti assisteremo a un film già visto. E sappiamo che non ha un lieto fine.