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«Non era mafia, ma una faida interna al mercato dei compro-oro e per la gestione dei locali notturni per stranieri». Giuseppe Trovato ricorre in Cassazione. E con lui la maggior parte dei sodali. E l’ultimo atto di mafia viterbese.
Il terzo grado che dovrà mettere la parola fine su una vicenda che ha visto, per quasi due anni, il capoluogo messo a ferro e fuoco da un gruppo di albanesi e calabresi. Il gup del Tribunale di Roma e la Corte d’appello hanno già affermato, quest’ultima a luglio scorso, che quel gruppo era un’associazione mafiosa. Condannando capi e gregari a oltre 70anni di carcere. Pene severe aggravate dalla detenzione al 41 bis in diversi carceri d’Italia.
Trovato, Ismail Rebeshi e altri 7 sodali sono stati arrestati dai carabinieri del Nucleo investigativo di Viterbo il 25 gennaio del 2019, al termine di una complessa indagine che ha ricostruito oltre quaranta attentati intimidatori, la maggiori parte dei quali incendiari, messi a segno nella città di Viterbo. Vittime predilette i piccoli imprenditori di attività compro -oro, ma anche gestori di locali notturni e sfortunati malcapitati.
«E’ necessario stabilire - si legge nel ricorso presentato dall’avvocato Giuseppe Di Renzo, che assiste Trovato e la compagna Foutia Oufir - se i giudici di merito hanno esaminato tutti gli elementi a loro disposizione. A nostro parere sono incorsi, inequivocabilmente, in un travisamento manifesto del compendio probatorio in atti. Ci sono dei vizi nelle motivazioni, tra cui l’omessa valutazione da parte della Corte territoriale di tutta una serie di censure difensive. Non solo, la Corte d’appello di Roma non ha valutato criticamente le deduzioni limitandosi a una semplicistica illustrazione dei motivi gravame solo enunciati ma in alcun modo sindacati».
La critica principale del ricorso presentato da Giuseppe Trovato riguarda proprio l’esistenza di un’associazione di stampo mafioso. «Secondo quanto emerso nelle sentenze - spiega Di Renzo - la mafiosità sarebbe fondata sulla commissione dei delitti scopo, ma la capacità di intimidazione deve appartenere all’associazione in quanto tale, non può desumersi dalla sola fama criminale di questo o di quel singolo. E non si comprende come sia stato possibile dedurre che gli autori dei reati fossero oltre che compartecipi o associati tra loro, ancor più legati in cosca mafiosa».
Secondo Di Renzo manca, tra le altre cose «l’elemento cronologico. Non emerge con chiarezza il momento in cui il gruppo abbia preso le mosse. La Cassazione sostiene che per affermare che sia associazione mafiosa l’arco temporale d’azione deve essere apprezzabile. Nel caso specifico di tale attività - dice il legaale - non vi è traccia. Emerge esclusivamente una sorta di faida interna al mercato dei compro oro e per la gestione dei locali notturni per straniere di interesse esclusivo del co-imputato Rebeshi».
L’esito del ricorso arriverà tra qualche mese.
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