Un rudere fantasma, l'eredità di un patron del Perugia e una battaglia legale lunga 13 anni

Un rudere fantasma, l'eredità di un patron del Perugia e una battaglia legale lunga 13 anni
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PERUGIA - Un rudere da ristrutturare in una zona di pregio, in cui è «preclusa l'edificazione di ulteriori cubature». Un rudere che, ristrutturato, sarebbe diventato un nuovo complesso residenziale. Ma un rudere che, però, esisteva solo sulla carta. Inserito nel progetto, tra disegni e fotografie, ma che invece non era presente nella realtà, se non con due muri e parte di un terzo. Un rudere, infine, per cui il Comune di Perugia, un vicino di casa e la società di un architetto sono stati in causa per tredici anni. E solo pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha messo la parola fine a una storia complicata, dando ragione non solo a due precedenti sentenze del Tar dell'Umbria, ma anche a palazzo dei Priori che aveva annullato l'iniziale permesso di costruire.

La storia inizia nel 2008, in località Fontana a Colle della Trinità, all'interno della proprietà che fu di Spartaco Ghini, il cavaliere che insieme a Franco D'Attoma diede vita al Perugia dei miracoli. Proprietà passata agli eredi e poi ceduta alla società dell'architetto: nell'atto di acquisto le parti della compravendita – come riassunto dalla seconda sentenza del Tar - «descrivono l'immobile preesistente, oggetto della futura attività demolitoria, come un “rudere di fabbricato con corte pertinenziale della superficie di metri quadri 1799”». Esattamente il presupposto, insieme a pianta e fotografie inserite nella richiesta di permesso di costruire, per cui nel 2008 l'Unità operativa Edilizia privata del Comune di Perugia ha dato il suo via libera. Stoppato quando Giuseppe Cascetta, un vicino proprietario di un fondo frontistante, ha presentato il primo ricorso al tribunale amministrativo. A seguito del quale «gli uffici comunali hanno effettuato un sopralluogo al fine di verificare lo stato dei luoghi» da cui «è risultata la mancata corrispondenza di quanto attestato dalla documentazione grafica e fotografica» rispetto allo stato reale del luogo. Insomma, quel manufatto noto come “corpo D” nella realtà non c'era.


Alla società, quindi (dopo che il Tar dà ragione a Cascetta), viene negato il permesso, anche perché – sono passati due anni – i lavori non sono neanche iniziati. Ma la società, assistita dagli avvocati Matteo Frenguelli e Mario Busiri Vici, non ci sta e torna davanti ai giudici amministrativi per chiedere l'annullamento del nuovo no del Comune. Ma il collegio presieduto da Carlo Luigi Cardoni respinge il ricorso e condanna la società a pagare mille euro di spese. È il 2012 e gli architetti arrivano alla fine fino al Consiglio di Stato. Con la Seconda sezione che la scorsa settimana ha rigettato definitivamente la richiesta di riforma dell'ultima sentenza del Tar, sottolineando come il rilascio del primo permesso «è derivato da un'erronea rappresentazione dei fatti – non importa se dolosa o colposa – da parte del privato richiedente». «L'appello - si legge nella sentenza – è infondato nel merito, in quanto il provvedimento impugnato in primo grado è fondato su di una corretta ed esaustiva istruttoria, che ha accertato la mancata preesistenza del corpo fabbrica oggetto dell'autorizzata ristrutturazione». Quel famoso rudere, insomma, che non era esistente neanche nel rilievo del 1968 e nella documentazione nel 1977. Insomma un rudere fantasma che però è costato 13 anni di battaglia legale e (altri) 2.500 euro alla società degli architetti che avevano presentato la richiesta e firmato il progetto: i professionisti, infatti, sono stati condannati al pagamento delle spese anche dal Consiglio di Stato. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero