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NOCERA UMBRA - «...Per preservarli da detto male non bisognava toccare niente di quello che avevano toccato quelli che erano infetti perché indubbiamente li infectavano gli altri per toccare quelle robbe, che avevano maneggiato gli infermi…». Sono passati 365 anni da quando quelle parole venne scritte per raccontare, nel 1656, la “Memoria del tempo che cominciò la Peste nel Castello di Colle”. Siamo tra Nocera Umbra e Gualdo Tadino e quel testo antico, unico, originale e da tanti punti di vista, attualissimo, viene tramandato di generazione in generazione per conservarlo dalla famiglia di Rosita Dominici che, insieme al marito Alessandro D’Antoni, e ai loro due figli conserva questo piccolo ma grandissimo tesoro. Si tratta di un libretto di 30 per 15 centimetri circa, fatto in parte in forma di diario di cronache locali e in parte come una sorta di registro notarile. In quella antica memoria dell’arrivo della peste al Castello Colle si parla anche di “quarantena”, pratica ancora attuale, e vengono dettagliate tutte le procedure da tenere per scongiurare il contagio e per contenere, per quanto possibile con le conoscenze dell’epoca, la diffusione del “morbo”. Un riferimento chiarissimo a quel racconto della peste e al testo che lo contiene c’è in una pagina del volume di Matteo Bebi, recentemente presentato a Gualdo Tadino, “La città dipinta. La storia di Bernardo di Girolamo di Matteo da Gualdo”. “Questo piccolo libro – dice a Il Messaggero Rosita Dominici – è una pezzo della storia della mia famiglia che si tramanda di generazione in generazione. Ed in molti passaggi, come nel racconto dell’arrivo della peste e della sua diffusione per contatto con chi ne era colpito, è molto attuale. Così come lo è nell’indicare le misure da porre in essere in caso di contagio o di contatto con una persona contagiata”. Ovviamente i 365 anni che dividono quella memoria scritta a mano, dalla situazione pandemica globale attuale mostrano similitudini e differenze. Un esempio viene dall’eguale esigenza di allora e di oggi, di evitare quanto più possibile il contatto e la necessità di igienizzare tanto le persone quanto gli ambienti. Oggi ci sono i gel e tutte le dotazioni necessarie a partire dalle mascherine. All’epoca della memoria della peste il “disinfettante” primario era il fuoco. Si bruciavano vestiti, e si passava la fiamma nelle stanze per poi ricoprire le mura con la calce: “E per salvare alcune robbe di casa bisognava spurgarle e farle stare alle serenate, e le case dove erano morte le persone bisognava pure con foco spurgarle e poi bisognava di farle imbiancare con la calcina , con zolfaro, e perranale pure s’adoprava”.
Il Messaggero