«Nessuno può morire da solo, neanche di Covid», l'appello per consentire visite nelle terapie intensive

Un reparto di Terapia intensiva (foto d'archivio)
PERUGIA - «Nessun malato sia più destinato a morire da solo in un reparo di terapia intensiva», è l'appello lanciato dall'Associazione...

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PERUGIA - «Nessun malato sia più destinato a morire da solo in un reparo di terapia intensiva», è l'appello lanciato dall'Associazione medici cattolici e dal Movimento per la vita di Perugia a tutta la sanità regionale umbra. La questione è stata sollevata sulle pagine del settimanale “La Voce” e sulle frequenze di “Umbria Radio InBlu”, che hanno dedicato ampio spazio al tema con storie, interviste e approfondimenti. Come la testimonianza di Anna Cristina e Alberto che hanno perso una cara congiunta, contagiata dal Coronavirus proprio in ospedale, senza poterle stringere la mano un'ultima volta. E poi, il racconto di Ada Vecchiarelli, medico rianimatore da quasi trent'anni all'ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. O ancora, l'esperienza di Paolo Malacarne, direttore del reparto di rianimazione dell'ospedale Cisanello di Pisa, che già dal novembre scorso sperimenta - con risultati positivi - l'accesso dei familiari dei malati ricoverati in terapia intensiva.


«Noi chiediamo - scrivono medici cattolici e Mpv - che si faccia ogni sforzo perché nessun malato resti lontano dai propri familiari, e perché nessuno muoia più in solitudine: la compagnia dei propri cari nel corso della malattia, specie nelle fasi più acute, fino al tempo del morire, deve far parte integrante del percorso di cura. Adesso che non possiamo più dirci sorpresi dall’emergenza improvvisa di un nuovo virus, è il momento di affrontare anche questo aspetto».

La nota, pubblicata sul settimanale La Voce è firmata da Marco Dottorini, presidente dell'Associazione medici cattolici di Perugia e da Assuntina Morresi, presidente del Movimento per la vita dell'Umbria: «Ci appelliamo ai nostri amministratori - scrivono Dottorini e Morresi - che siano predisposte procedure perché almeno un familiare, o un affetto, possa visitare la persona cara malata, anche di Covid-19, soprattutto nelle fasi più critiche della malattia e negli ultimi momenti della sua vita. Procedure che possano essere ragionevolmente attuate, tenendo conto della situazione complessiva in cui si trova la struttura sanitaria, che non mettano in ulteriore difficoltà il personale coinvolto e che al tempo stesso rendano l’organizzazione il più possibile rispondente alle necessità della persona malata». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero