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PERUGIA - Nei giorni tra il 24 ottobre e il 4 novembre in Terapia intensiva a Perugia c'erano posti disponibili. È quanto hanno verificato i carabinieri del Nas a cui il procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini ha chiesto di accertare lo stato dei posti letto al Santa Maria della misericordia nell'ambito dell'inchiesta per omicidio colposo aperta dopo l'esposto della moglie di Stefano Brando, il primo medico morto di Covid in Umbria lo scorso 19 novembre.
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La malattia lo ha portato via in tre settimane: la diagnosi di positività era arrivata il 24 ottobre e da subito il professionista si era sentito di chiedere aiuto al 118. Se è vero che i medici sono i peggiori pazienti, portati a sminuire più che esagerare i propri sintomi, di certo il dottor Brando non era ipocondriaco. Come raccontato dalla sua famiglia, infatti, da subito si era preoccupato per quei livelli di saturazione che non gli erano familiari. E aveva chiamato un'ambulanza per capire cosa fosse necessario fare. All'arrivo dei sanitari la sua situazione non è sembrata così preoccupante, tanto che il mezzo è tornato vuoto verso l'ospedale. Convinto che si potesse curare da solo, con ossigeno e saturimetro a portata di mano, invece di fare file di ore in ambulanza, come ventilato con schiettezza dagli operatori. Che avrebbero parlato anche di posti non disponibili all'ospedale di Perugia, tanto da affievolire la sua convinzione di farsi ricoverare.
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Eppure, il giorno dopo la risposta del tampone, Brando chiama ancora il 118. Non si sente bene, ha dolori ovunque, la saturazione continua a scendere ed è preoccupato. Ma non è un bambino, è un professionista riconosciuto da tutti come preparato ed evidentemente qualcosa nel suo corpo gli indicava che lo stava tradendo. Un amico esperto gli aveva consigliato di non arrivare in ospedale in condizioni già troppo gravi o critiche, meglio iniziare subito la controffensiva. Ma il ricovero sembrava impossibile, o comunque molto difficile - vista la situazione all'inizio della seconda ondata di contagi -, e Brando cede. Meglio restare a casa.
Finché però all'alba del terzo giorno gli cedono anche le gambe, cade a terra e sbatte la testa.
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Che adesso stanno proseguendo sua moglie, in prima linea, e le tre figlie. Per capire se ci siano responsabilità in questa morte che ha lasciato nello sconcerto pazienti, amici e una città intera, amministrazione comunale compresa. L'autopsia ha parlato di organi in sofferenza e delle conseguenze di una grave polmonite che lo hanno portato all'arresto cardiaco, ma ci vorranno ancora diversi mesi per avere la relazione completa dell'esame autoptico svolto all'ospedale Gemelli di Roma.
Agli altri interrogativi dovranno trovare le risposte gli inquirenti, che si sono dimostrati da subito molto attenti e sensibili a questo caso: un ricovero anticipato avrebbe potuto salvargli la vita? C'è stata leggerezza nell'indurlo a restare a casa? Oppure il decorso sarebbe stato comunque quello più nefasto, colpa del destino e di un virus affamato di vittime? Al momento l'inchiesta è sempre contro ignoti ma la famiglia, senza puntare il dito, chiede solo risposte che attutiscano il dolore.
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Il Messaggero