Mafia, arrestato Messina Denaro Cardella: «Giustizia è fatta»

Fausto Cardella
Ottobre 1992. Convegno di magistrati. Si avvicina a Fausto Cardella l’allora procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra: «Vieni a lavorare con noi in Sicilia? Con...

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Ottobre 1992. Convegno di magistrati. Si avvicina a Fausto Cardella l’allora procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra: «Vieni a lavorare con noi in Sicilia? Con Ilda Boccassini stiamo creando un pool per indagare sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Sei mesi». Il pm di Perugia rimane interdetto, promette che ci avrebbe pensato, Tinebra non si scompone: «Pensaci con comodo, stasera mi dai una risposta». Trascorrono poche ore, Cardella telefona: «Ci sto, sono con voi».

Conosce bene Caltanissetta perché è la sua città d’origine, dalla quale era venuto via però quando era ancora un bambino. Il jet atterra il 2 novembre, ad attenderlo nel parcheggio dell’aeroporto c’è la macchina con gli agenti di scorta che adesso viaggia a velocità sostenuta verso l’albergo. La hall è spoglia, essenziale, la luce fioca. Il magistrato appoggia la valigia sul parquet scricchiolante della sua stanza che si trova in un’ala riservata, controllata notte e giorno dagli alpini di guardia alla porta e alle finestre. Cardella sarebbe rimasto alla Direzione distrettuale antimafia della Procura nissena 14 mesi, impegnato a tempo pieno sulle stragi. Una vita appartatissima di interrogatori, riunioni, confronti serrati e atti giudiziari scritti in silenzio fino a tarda sera, quando si finisce di lavorare e una chiamata in hotel diviene provvidenziale quanto meno per trovare una cena fredda sullo scrittoio in camera. Quattrodici mesi di solitudine e di lavoro che riempiono l’anima e le giornate. Quattordici mesi in cui vengono passate in rassegna l’«attentatuni» di Capaci e la strage contro Rocco Chinnici, quindi la bomba costata la vita a Paolo Borsellino e ai suoi agenti. Si riaprono pure le indagini sull’Addaura e sull’uccisione del giudice Carlo Palermo. Settimane intense culminate con centinaia di richieste di misure cautelari e rinvii a giudizio. Nelle carte contenute nei faldoni siciliani si potevano leggere spesso i nomi di Totò Riina, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, l’ultimo super-latitante di Cosa nostra arrestato ieri in una clinica privata di Palermo. «L’arresto di Messina Denaro è un bel colpo - commenta Cardella - per questa ragione esprimo i miei più sinceri complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo, al procuratore Maurizio De Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, congratulazioni che estendo ovviamente all’Arma dei Carabinieri e al comandante del Reparto operativo speciale, Pasquale Angelosanto, che hanno portato a termine con questo felice esito un’operazione di straordinaria importanza». Il boss era ricercato da più di trent’anni: «La sua cattura però è molto importante perché dimostra che la giustizia arriva, anche a distanza di tempo, ed è sempre bene ricordarselo. Questo arresto dovrebbe mettere fine ai complottismi e alle ricostruzioni più o meno campate in aria che abbiamo sentito in tutti questi anni in Italia». Il latitante - prosegue l’ex procuratore generale di Perugia - ha goduto delle «protezioni tipiche della mafia ma lo Stato, per quanto a distanza  di tempo, ce l’ha fatta». U Siccu era l’ultimo boss mafioso di ‘prima grandezza’ ancora ricercato. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell'ordine: lo cercavano contemporaneamente i carabinieri e la polizia. «È importante che nel nostro Paese esistano più forze di polizia in quanto, ognuna con le proprie specificità, offre valide conoscenze e alternative alla magistratura. In un’indagine come questa tutti hanno collaborato e ci sarà stato, certamente, un proficuo scambio di notizie che ha portato a un risultato oggettivamente straordinario come la cattura di Messina Denaro».

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Il Messaggero