Il Mostro di Firenze e gli intoccabili Giuttari: «Confesso che ho indagato»

Giuliano Mignini e Michele Giuttari
PERUGIA - Trecentosessantacinque pagine per raccontare trent'anni di indagini. Un libro in tre parti per togliersi diversi sassolini dalle scarpe, sfondate da indagini vissute...

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PERUGIA - Trecentosessantacinque pagine per raccontare trent'anni di indagini. Un libro in tre parti per togliersi diversi sassolini dalle scarpe, sfondate da indagini vissute sempre in prima linea.


Da poliziotto super diventato scomodo: ecco la vita di Michele Giuttari, nell'autobiografia tradotta in romanzo con “Confesso che ho indagato”, in libreria in questi giorni per Rizzoli.Un libro che inizia con l'odore acre dell'incubo di un'esplosione, temuta ma mai accaduta, nelle terre di mafia del Reggino, dove Giuttari arriva all'inizio della sua carriera. Un libro che sfuma sulle valigie pronte per un viaggio a Francoforte, dopo essere finito nel rammarico per «un'inchiesta che ha affossato le indagini». Quella sui presunti mandanti del Mostro di Firenze e sulla morte di Francesco Narducci. Conclusa con assoluzioni, ma prima affossata, scrive Giuttari, «nell'indifferenza di tutti». Perché il super poliziotto, certamente senza esaurirla, ha legato molto della sua carriera alle vicende degli omicidi delle coppiette, dei compagni di merende che hanno terrorizzato la Toscana tra il 1968 e il 1985. Arrivando fino in Umbria, passando per un cadavere nel lago Trasimeno.



E Giuttari racconta le indagini, i dubbi. Gli arresti di Pietro Pacciani e dei compagni Vanni e Lotti. Ma «il vero Mostro, il grande regista a cui Pacciani si era appellato per essere scagionato, continua a ridersela». Perché, spiega, ci sono altri personaggi, intoccabili, per i quali si è dovuta muovere una ben attrezzata regia, che, attraverso i canali giusti, ha fatto di tutto per non far progredire le indagini». Però Giuttari ha un'idea precisa di chi siano «gli intoccabili». E nella sua autobiografia li evoca, li indica, li descrive, ripercorrendo i riscontri che via via ha accumulato. Il rigore del poliziotto allora si abbandona a punti esclamativi che valgono un sospiro di sollievo o la frustrazione di sentirsi stoppato. Per la guerra tra procure, superiori non convinti e reticenze. Insieme a lui, il magistrato che a Perugia ha seguito con determinazione e caparbietà le indagini e gli strascichi tutti perugini: quel Giuliano Mignini per cui a ogni pagina si respira stima e fratellanza.Un'autobiografia che sembra una memoria difensiva di un processo alla sua attività investigativa che non c'è mai stato, ma finito con una condanna a morte. Quella dell'indagine. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero