Il sapore "vintage" dell'automobile: in vacanza tra valichi e foto reali

Il sapore "vintage" dell'automobile: in vacanza tra valichi e foto reali
Non si scoraggiavano facilmente i coriacei automobilisti degli anni '60. Sarà che erano nati durante la guerra, o la guerra l’avevano fatta addirittura,...

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Non si scoraggiavano facilmente i coriacei automobilisti degli anni '60. Sarà che erano nati durante la guerra, o la guerra l’avevano fatta addirittura, sarà che possedere un’automobile significava l’ingresso in un’altra dimensione e il coronamento di un sogno, ottenuto quasi sempre con grandi fatiche e molti risparmi. Certo le strade sterrate e le macchine inaffidabili non smorzavano il loro inguaribile entusiasmo. Oggi un piccolo tratto di strada bianca fa arretrare allarmati i guidatori del III millennio, a meno che non la conoscano e che sia nei pressi di casa: “ma io mica c’ho il SUV!” “E questa chissà dove porta!” “Ho appena lavato e incerato la macchina, vogliamo scherzare?” Le gomme lucide e nere arretrano schizzinose di fronte a ciottoli, polvere e pietrisco. Certo la conquista dell’asfalto ovunque non ci ha liberato dalle buche, ma questo è un altro problema perché le strade sterrate spaventano, ma le voragini cittadine siamo pronti ad affrontarle. Nei favolosi anni '60 le strade erano quelle che erano, e le automobili pure. Ancora bambino, sentivo in casa parlare di un amico di famiglia che di ritorno dall’Adriatico aveva affrontato la “Scheggia” in notturna, un valico che - anche in quell’epoca di audaci – era un banco di prova di coraggio e abilità. Dicevano che era arrivato grigio di polvere, per non parlare della 1100 nera…


Eppure era normale, anzi un grande privilegio, poter andare il sabato a trovare il resto della famiglia in villeggiatura, senza affrontare le incerte ferrovie… Ve lo immaginate, su e giù per quei tornanti, con sospensioni non certo molleggiate e i fari d’epoca che gettavano un flebile cono di luce sulla carreggiata, illuminando polvere e insetti. Però, proprio perché complicate, le gite restavano memorabili, come memorabili erano le fotografie (pochissime) che avrebbero scandito l’evento. I rullini avevano 24 “pose” (parola ormai desueta) e ci si pensava bene prima di scattare. L’automobile aveva il suo posto d’onore, ovvio. Di autoscatti neanche a parlarne. Le foto sarebbero state viste dopo settimane, forse mesi, mica si poteva sprecare tutto un rullino per una sola scampagnata, forse l’unica della stagione.


L’importante era immortalare i pupi, la macchina e poi una bella foto tutti insieme. Oggi abbiamo tutti i giga che vogliamo nelle potentissime SIM e ovviamente nel telefono. Si scatta a raffica, si condivide, si pubblica, si posta, si aggiusta pardon si ritocca con Photoshop. Ci ripensavo martedi scorso quando in meno di un baleno sono arrivato al Terminillo e poi rientrato nella stessa mattinata. Di foto ne ho scattate un’infinità e l’auto al ritorno era più lucida di prima. Qualche decennio fa, una gita al Terminillo rimase negli annali e nei ricordi di famiglia per anni: l’automobile aveva salito coraggiosamente tutti i tornanti senza andare in ebollizione, i bambini non avevano avuto mal di macchina, e il pic nic sul prato fu memorabile. Veloci, comodi, sicuri, ma la soddisfazione è la stessa dei nostri padri? Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero