«Così giro l'Umbria in autostop» La storia di Giacomo

Giacomo Nardin
PERUGIA Con la voglia di riposo e la faccia, le braccia di chi ha passato una mattinata a spaccar legna senza esserne capace, sulla provinciale che collega Panicale con...

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PERUGIA Con la voglia di riposo e la faccia, le braccia di chi ha passato una mattinata a spaccar legna senza esserne capace, sulla provinciale che collega Panicale con Castiglione del Lago spunta un dito alzato.


Un tizio con cappellino, occhiali da sole e zaino sulle spalle che non sembra aspettarsi veramente un passaggio. È giovane, barbetta incolta, gambe bruciacchiate dal sole e l’accento veneto. «Vado verso Castiglione» dice e domanda allo stesso momento. Lascia lo zaino sul sedile posteriore e si mette da una parte, più vicino alla maniglia della sua portiera che al pomello del cambio. Si chiama Giacomo Nardin, viene da Vicenza e ha fatto Adriatico – Tirreno coast to coast, da Orbetello ad Ancona. Sembra fidarsi ma racconta di un tizio che l’ha caricato sulla sua macchina e nel silenzio dell’abitacolo gli ha poggiato una mano sul ginocchio. Giacomo l’ha guardato e gli ha detto un no bello deciso e dopo un altro lunghissimo momento di silenzio: «Preferisco proseguire a piedi». «Prego, eh», gli ha fatto l’automobilista. «Ecco – racconta Giacomo – quando parti per questi viaggi, questi sono gli episodi per cui gli amici ti prendono in giro al bar». Poi racconta il suo viaggio.



«Ho vent’anni ma questo non è il primo. Ho fatto da Vicenza a Trento con amici in 5 giorni, mentre l’anno scorso in tre abbiamo fatto da Vicenza al Reno in bici per arrivare fino ad Amsterdam. Questo è il mio primo viaggio da solo, ed è più difficile di quel che si pensa. In due hai con chi sfogarti, litigare, decidere. Qui sono solo. Il secondo giorno, dopo 15 chilometri ho passato un’ora a litigare con me stesso se fare l’autostop o meno. Alla fine ho deciso: ogni giorno mi sveglio, cammino finchè non sono stanco e poi chiedo un passaggio. Una trentina di chilometri al giorno».

Per chi entra nel panico a metà proiezione di un film, convinto di non aver chiuso la macchina, l’organizzazione di un coast to coast del genere mette addosso una sensazione di inferiorità difficile da digerire. Giacomo si prepara così: «Lo zaino l’ho studiato per essere autosufficiente un mese, cibo e acqua esclusi. Ciò vuol dire che ho messo dentro la tenda, il sacco a pelo, il fornelletto, una pentola, un piatto, qualche indumento anti pioggia, un cappello e altri vestiti di ricambio. Ho trovato spazio anche per due libri, “Mille splendidi soli” e il racconto di un viaggio che si intitola “In vespa”. Ho anche una torcia, il telefonino che è quasi sempre spento e la macchinetta fotografica. Il tutto è sui 18 chili e ho cercato di distribuire equamente il peso sulle spalle. Non mi sono portato l’orologio, vado con il sole, e la stanchezza». È il momento di calare le carte e al più semplice e ingenuo dei perché risponde così: «Dopo le prime esperienze è nata questa voglia di viaggiare, di vedere posti e di conoscere persone, di confrontarmi e di vivere nel periodo in cui sono in strada con i ritmi della natura, riscoprendo i miei e non vivendo con quelli imposti da altri. Ho imparato questo modo di muovermi, ben lontano dai comfort ma che mi dona una tranquillità e una crescita che non trovo in nessun altro modo». Intanto arrivati a Castiglione del Lago è il momento di offrire una birra all’autostoppista e domandargli come sono questi umbri, visti a passo d’uomo. «Ho scelto di fare questo viaggio nel centro Italia perché il suo paesaggio è così diverso dalla pianura padana, la storia e la tranquillità».



«​Gli umbri? Non salutano mai». E quando si spiega che non è un trattamento riservato solo agli autostoppisti ride di gusto. «Comunque sotto le facce burbere ho trovato della gente molto ospitale. È stato un viaggio profondo, a contatto con le persone, giovani e anziani, coi quali ho scambiato sogni e speranze. Persone molto attaccate alla propria terra, che ha dei panorami unici ma anche delle zone dove non c’è nemmeno un lampione. Alcune volte prima di farmi piantare la tenda in giardino c’è chi mi ha chiesto la carta d’identità; un altro ha voluto chiamare a casa mia madre per sapere se ero affidabile. Un altro giorno in cambio dell’ospitalità ho aiutato il proprietario di casa a sistemare gli ulivi. È successo anche che una famiglia mi ha lasciato dormire in un letto vero, in casa. Sono anche stato accolto molto calorosamente da una comunità che ospitava ex dipendenti da gioco, alcol e droghe». Un viaggio lungo venti giorni e tanti chilometri, «in cui ho speso 100 euro. Molto spesso la cena mi è stata offerta, e a pranzo mangiavo frutta che trovavo lungo la strada». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero