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Tra il karma del nome, Francesco e quello del lavoro, l'Acciaieria, lui ha scelto il primo senza il minimo tentennamento. Francesco Annesanti, classe 1980, vignaiolo per amore e per passione, ha seguito le orme del nonno paterno, di nome Francesco, contadino per vocazione, il quale, tornando invalido dalla seconda guerra mondiale, rifiutò tutti i posti statali che gli venivano offerti, per restare lì, in quell'ettaro di vigna in Valnerina, lasciato poi in eredità al nipote che tanto amava. L'altro nonno da parte di mamma, Francesco pure lui, invece aveva preferito il lavoro in fabbrica, così come il padre e il fratello (Federico n.d.r.) del nostro intervistato. Ostacolato da tutta la famiglia all'inizio, soprattutto dal padre Secondo, che non voleva vederlo sacrificato in vigna, è stato lasciato sbattere la testa da solo, finché tutti si sono dovuti arrendere all'evidenza e ora, si ritrovano tra i filari con lui, compreso l'altro fratello Mattia. Fresco del premio ritirato a Milano, al Teatro Manzoni, per essere stato inserito nella guida dell'Espresso tra i migliori 1000 vini italiani, con il bianco “Fonte Farro”, Francesco Annesanti ancora non ci crede: “Salire sul palco, accanto ad uno dei più grandi produttori di vino, mi tremavano le gambe”, sussurra con un filo di voce, scuotendo la testa e diventando rosso per l'imbarazzo. Fonte Farro, come la sorgente dove i suoi avi portavano gli animali a dissetarsi e lui piccolino gli trotterellava dietro. Nella guida è finito anche “l'Acqua della Serpa”, sorgente a Monterivoso, che gli anziani sostenevano avere proprietà taumaturgiche. Ogni vino è “un figlio”, ogni vino ha una storia legata alle sue radici, ai suoi amati nonni. La “Suppriscola”, ad esempio, rosso con cui ha vinto il primo premio della sua carriera allo Slow Wine 2018, deriva da un gioco inventato dal nonno che cercava dietro al collo dei nipoti un fantomatico animaletto chiamato suppriscola! Laureato in scienze naturali, con un master in bioinformatica, ha avuto sin da subito le idee chiare e quell'ettaro di vigneto lasciato dal nonno è stato più che triplicato, ora sono diventati sei. Solo una persona al suo fianco a sostenerlo: Elisabetta Atteo, la sua donna da sedici anni, partenopea nel cuore e nell'anima. Tanto schivo lui, quanto vulcanica lei. “Uè, uè!”. Eccola. Entra nella nuova cantina ancora in fase di ultimazione, a passo di carica. Solare, radiosa. Apre bottiglie, offre salumi e formaggi come se lo facesse da sempre, invece lei di professione è medico in pronto soccorso all' ospedale di Terni. Trasferitasi in Umbria nel 2016, dopo nove anni di relazione a distanza, in cui nessuno credeva, si ritrova ad affrontare il terremoto in ospedale a Norcia. “Una paura – esclama con ancora il terrore negli occhi – i mesi successivi facevo la guardia medica dentro una roulotte e quando capitava il turno di notte, Francesco veniva a farmi compagnia e dormiva per terra, sul pavimento”. Si gira verso il compagno e lo guarda con tanto amore. Elisabetta è lo sponsor number one di Francesco, la sua carica. Lo sprona, lo incoraggia, mai un passo indietro, anche quando lui prosciuga il conto in banca per ristrutturare la stalla del nonno. Un'amica comune glielo fece conoscere, in un momento brutto della sua vita, la perdita dell'amato zio con cui era cresciuta e che si chiamava...Francesco. Un nome, un destino. “Mi colpì subito la sua autenticità, i suoi valori. Questi ricordi legati ai nonni. Fu un colpo di fulmine – sorridono gli occhi e la voce di Elisabetta mentre lo dichiara - ho sempre creduto in lui e nel suo valore come vignaiolo”.
Il Messaggero