Liberi di fare meta: nel carcere di massima sicurezza di Frosinone nasce la squadra di rugby dei Bisonti

Liberi di fare meta: nel carcere di massima sicurezza di Frosinone nasce la squadra di rugby dei Bisonti
ROMA «Allora mi raccomando, il primo che protesta lo caccio fuori» dice a muso duro l'arbitro alle squadre schierate. Sì, certo, ci mancherebbe, ma...

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ROMA «Allora mi raccomando, il primo che protesta lo caccio fuori» dice a muso duro l'arbitro alle squadre schierate. Sì, certo, ci mancherebbe, ma «fuori» da dove? Perché da un carcere di massima sicurezza non è mica facile uscire, men che meno da quello di Frosinone dove i detenuti si sono messi a giocare a rugby.


Condannati per rapina, omicidio, associazione per delinquere (mafia e camorra, insomma) si sono messi a tirare placcaggi, a ingaggiare mischie, a tuffarsi in meta, a sfidare vecchie glorie romane. In modo che, anche sotto le muraglie di cemento armato, passare la palla all'indietro significa guardare avanti, molto avanti, quando tra 15 o 20 anni si potrà davvero uscire dal carcere.

«In verità - racconta il pilone romano Claudio Monacelli, 68 anni, barba bianca e infinite mischie, allenatore dei detenuti - quando a maggio i carcerati ci hanno visto sistemare il campo da gioco assai malconcio della casa circondariale, pensavano al ritorno del calcio, proibito da tre anni dopo l'ultima colossale rissa. Poi hanno visto i palloni ovali e sono restati un momento interdetti: nessuno di loro li aveva mai maneggiati a parte un ventenne arrivato dalla casa minorile di Nisida. Poi ha vinto la curiosità e adesso si allenano due volte la settimana in più di cinquanta, dai 22 ai 35 anni. Sono piazzati bene fisicamente, il che, si sa, non guasta. Non si perdono una seduta, questi ragazzi, se non quando devono frequentare i corsi per raggiungere la licenza di terza media».



L'articolo pubblicato sul Messaggero il 9 ottobre 2012


Monacelli insegna il rugby in carcere e impara a non fare domande: «È solo per non metterli in imbarazzo, perché in realtà loro sono disponibili al dialogo. Però non è facile parlare di tante cose della vita quando, come mi è capitato nei primi allenamenti, un ragazzo di 21 anni mi ha detto che uscirà di lì quando ne avrà 55».

Giocano a rugby da due anni anche i detenuti delle «Vallette» di Torino ma quella di Frosinone è la prima esperienza che coinvolge italiani condannati a lunghe pene o costretti al regime di massima sicurezza. Appunto tutti italiani, a parte un giovane dell'Est Europa e uno statunitense.

«Oh, a parte che un paio di ali e una seconda linea potrebbero già giocare in serie B, ce ne fosse uno di questi detenuti che avesse mai perso la pazienza dopo aver subìto un placcaggio pesante - dice ancora Monacelli, che con l'associazione Rugby col cuore ha portato il rugby non solo tra le celle ma anche in Mozambico - I reclusi mostrano sempre il massimo rispetto per noi allenatori e per gli avversari. Hanno capito come controllare l'aggressività, che nel rugby serve dal primo all'ultimo minuto, e a metterla al servizio del gioco e della squadra. Non vorrei farla troppo lunga, ma credo che queste persone abbiano ritrovato, con il rugby, sia la dignità sia quella parte di bambino che è in tutti noi: roba che in carcere troppo spesso viene presto a mancare».


Ne è convinta anche la neodirettrice del casa circondariale Luisa Pesante, una tipa tosta seduta su una polveriera con oltre 500 reclusi, ben oltre il numero di posti disponibili: «Per giocare a rugby bisogna affrontarsi con durezza, ma rispettando le regole, bisogna credere in valori come la lealtà: ora i detenuti hanno una possibilità in più per mettere in pratica questi insegnamenti e magari portarli, una volta scontata la pena, a Scampia o in altri ambienti degradati». Intanto, duri e leali, sabato scorso i detenuti di Frosinone con la maglia dello Junio College Club-Rugby col Cuore e Gruppo Idee, non hanno fatto sconti alla selezione della Namau: 7 mete a 2. E nessuna protesta con l'arbitro.

(articolo pubblicato il 9 ottobre 2012)
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Il Messaggero