L’estate scorsa, quando bruciava sulla panchina della Grecia, su Claudio Ranieri vincente quasi nessuno avrebbe scommesso. Allora venne sconfitto da elettricisti,...
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Giacché il compito era uno solo: la salvezza. Del resto l’anno prima il Leicester aveva rischiato di brutto: aveva cominciato a vincere e salvarsi (Ranieri non c’era) non appena lo scheletro di Re Riccardo era stato ritrovato sotto un parcheggio di città e sepolto nella cattedrale. C’è chi crede che il re celebrato da Shakespeare sia oggi il santo protettore delle Foxes, le volpi, come vengono chiamati i giocatori del Leicester: per questo i di lui monumenti in città sono già tutti di blu dipinti e vestiti da qualche tempo. E le britanne si sdilinquiscono davanti alle telecamere: «I love, Claudio», promosso sul campo perfino latin lover. Così stavano le cose quando arrivò da quelle parti il testaccino Claudio, ex garzone di macelleria, ex difensore e, dicevano i pensatori del pallone, ex allenatore. Gli era rimasto cucito addosso, per sempre, quel «zero tituli» che gli indirizzò Mourinho.
Non erano zero, ma poco più. Mourinho diceva anche: in cinque anni d’Inghilterra ha appena imparato a dire good morning e good afternoon. Non è così: ora è fluent, parla di dilly ding dilly dong e sono stati gli inglesi a imparare l’italiano, «Ranieri oh oh, Ranieri oh oh oh oh» cantano sulle note di Volare. Già, Volare: ha detto che non avrebbe guardato la partita che poteva dargli lo scudetto, tra Chelsea (che fu suo) e Tottenham, perché in aereo rientrando dal pranzo con la mamma 96enne in Italia. Ah, che bell’animo italiano! La mamma prima dello scudetto! Temporeggiava, del resto ai tempi del Chelsea lo chiamavano Tinkerman, perché sembrava indeciso a tutto. Errore: er minestraro (o l’affettuoso er fettina) quando era a Roma “osò” lasciar fuori dopo l’intervallo nel derby, che vinse, Totti e De Rossi. Rischiò la lapidazione, ma evitò i sassi: e quelli che gliene volevano gettare, adesso hanno tutti messo dei fiori nei loro cannoni.
Romano, e quindi ironico, Ranieri se la riderà di gusto, ma anche perdonerà: ha dato ai suoi ieri calciatori e oggi campioni gli stivali delle sette leghe e corrono come nessuno; ha scritto una favola da solo, senza aver bisogno d’un fratello come i Grimm o gli Andersen; è il pallonaio magico giacché ha vinto dove mai s’era fatto, dove tutt’al più s’erano disputate quattro finali di coppa, tutte perdute e l’ultima nel 1969, quando i Beatles salirono a cantare e suonare sul tetto della Apple, volò il primo Concorde, si tenne Woodstock, Gheddafi andò al potere e Gianni Rivera vinse il pallone d’oro.
Il Messaggero