Corso, "sinistro di Dio" dimenticato dalla Nazionale

Mario Corso
Era nato a San Michele Extra Muros, cioè fuori le mura di Verona, ma le sue punizioni spesso finivano dentro. Aveva un sinistro sublime, che il ct di Israele definì...

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Era nato a San Michele Extra Muros, cioè fuori le mura di Verona, ma le sue punizioni spesso finivano dentro. Aveva un sinistro sublime, che il ct di Israele definì appartenere a Dio dopo un 2-4 con gli azzurri, che però frequentò poco. La morte di Mario Corso, scomparso ieri all’età di 78 anni dopo qualche giorno di ricovero in ospedale, riaccende i riflettori sul calcio italiano anni 60 che si erano appena spenti dopo le celebrazioni di Italia-Germania 4-3, la Partita del secolo. Mariolino al Mondiale dei Messico ‘70 però non c’era, nonostante in parecchi lo considerassero il più forte di una squadra epocale. La Grande Inter, la Formazione per eccellenza che si imparava a memoria alla stregua di una poesia da recitare davanti a una commissione d’esame come nel film Ecce Bombo di Nanni Moretti: “Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Milani; Suarez, Corso”. Quella squadra del presidente Angelo Moratti e, in panchina, del Mago Helenio Herrera accompagnò il boom economico italiano a suon di Coppe dei Campioni (due) di Coppe Intercontinentali (2) e di scudetti (quattro). «Corso era il mio preferito - ha confessato ieri Massimo Moratti - lo avrebbe voluto il Brasile di Pelè».

AZZURRO PALLIDO
Lo volevano i verdeoro, non lo vollero gli azzurri. Raro, ma capita. Somiglia alla storia di Roberto Mancini, l’attuale ct. E, forse, la matrice è la stessa: «Lui non ha mai fatto i complimenti a nessun allenatore per un posto», ricorda Moratti. Ma senza scomodare l’ex presidente interista, basta riascoltare una vecchia intervista di Corso: «Tutte le volte che c’era un Mondiale litigavo con un allenatore...Non avevo rapporti, io pensavo solo a giocare. Pubbliche relazioni zero. Erano importanti anche allora». E nonostante i successi nemmeno con Herrera era amore totale: «Io Picchi e Guarneri eravamo sempre sul mercato su indicazione dell’allenatore - ricordava Corso -. Moratti a fine campagna acquisti diceva a Herrera che ero rimasto perché nessuno mi aveva voluto. E il Mago poi veniva poi a dirmi “lo sai che il presidente voleva cederti e io ho detto di no?”». Le sole 23 presenze con la Nazionale restarono una ferita «però l’affetto dei tifosi mi ripaga», minimizzava lui. Amore che gli si è riversato potente addosso alla notizia della morte. Vecchi bambini cresciuti sognando le sue punizioni, scimmiottate all’oratorio con i calzettoni abbassati, gli hanno dedicato messaggi. Dai cantanti Enrico Ruggeri («Le volte che ci siamo incontrati ero troppo emozionato per chiedergli le mille cose che avrei voluto sapere. Un giorno rimedierò») e Biagio Antonacci («Ricordo i pomeriggi con mio padre allo stadio e lui, dopo ogni gol, baciava la fede. Che dolore!»), ai vecchi compagni di squadra come Mazzola («Guardava da un’altra parte poi ti faceva il passaggio preciso al millimetro e rideva perché li aveva fregati tutti. Era un fenomeno») o rivali come il milanista-juventino Capello («Eravamo amici - lo piange Capello -. Aveva le mani al posto dei piedi, metteva la palla dove voleva»).
BANDIERA

L’Inter perde una bandiera da 413 presenze e 75 gol, ma lo commemora anche il Genoa con cui chiuse la carriera spendendo i suoi ultimi due anni da calciatore. Carriera che terminò il 9 marzo 1975 a Palermo, in serie B, dopo uno scontro con Vanello che gli costò la frattura della tibia. Per chi crede alle coincidenze come pennellate del destino, a Palermo il 28 aprile di 38 anni più tardi un’altra bandiera interista subì un infortunio che rischiò di troncarne la già matura carriera: Xavier Zanetti si ruppe il tendine d’Achille (ma l’argentino riuscì a rientrare in campo e giocare un’altra stagione). Stimmate nerazzurre. La carriera da allenatore gli ha regalato gioie soprattutto nelle giovanili di Napoli e Inter, anche se il palmarés parla di un’esperienza sulla panchina nerazzurra nell‘85/86: «Non posso dire di aver allenato l’Inter - rispondeva - perché la presi in corsa solo per fare un favore al presidente», Ernesto Pellegrini aveva esonerato Castagner e poi scelse Trapattoni. Corso se n’è andato alla vigilia di un Inter-Samp, la partita che il 23 novembre del ‘58 ne segnò l’esordio in serie A a 17 anni e mezzo (e sette giorni dopo a Bologna arrivò il primo gol). La foglia morta ha compiuto la sua traiettoria. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero