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Il tennis è duro: è lavoro, è costruzione, è un puzzle di fisico, tecnica, testa; è anche mistero, e dubbi, crisi. Il tennis, però, è anche favola. Come quella di Luciano "Luli" Darderi che per il compleanno numero 22 di domani si è regalato un risultato multiplo, impensabile: da 136 del mondo di una settimana fa, dal ko al primo turno degli Australian Open e al secondo al Challenger di Punta del Este, ha superato le qualificazioni nell'ATP "250" di Cordoba, ha battuto avversari molto più forti come Ofner (n. 38), Hanfmann (59), Baez (26), e s'è aggiudicato il titolo, superando il veterano Bagnis e volando al 76 del ranking. In un'altra dimensione. Sesto top 100 italiano, dopo Sinner, Musetti, Arnaldi, Sonego e Cobolli. Italiano perché, pur nascendo in Argentina, già a 10 anni s'è trasferito a Fano e ha abbracciato la nazionalità del nonno che lasciò il Bel Paese per cercare fortuna.
Grazie, nonno
«Sono argentino e mi sento italiano. Sarò sempre coerente con le mie scelte sportive rispettando le due nazioni che ho nel cuore. Spesso mi alleno a Roma o a Pescara dove vive il mio manager Luca del Federico. Papà ha deciso per la mia carriera di giocare per l'Italia: è il mio lavoro, anche Javier Zanetti è nato in Argentina, ha giocato da calciatore con l'Inter, oggi vive a Milano e fa il dirigente di una squadra italiana.
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Gavetta
Luciano è fisico, soprattutto bei piedi veloci, buon dritto in top, rovescio solido da stabilizzare come il servizio, varietà e reattività, grazie a papà Luciano Sr, "Gino", ex pro e coach. «In finale ho servito anche a 230 all'ora. Sul rovescio stiamo lavorando molto. La parte atletica sarà fondamentale. A luglio, abbiamo inserito nel team un preparatore atletico e dal 260 del mondo guarda dove sono». S'era fatto un nome già a 10 anni nel campionato macroarea dell'Aquila e poi nella Junior Davis Cup, insieme a Cobolli e Nardi. «Ho rapporti ottimi con tutti gli altri ragazzi. Molti di loro mi hanno inviato messaggi. Anche Carlos, Alcaraz». A 18 anni, da top 10 mondiale juniores, era stato promosso dall'ATP sparring partner alle Finals di Londra 2020 (le ultime prima di Torino), era rimasto folgorato da Djokovic. Ma, con in testa l'idolo Juan Martin del Potro, punta a giocare «più d'attacco, servizio e dritto, spingere, essere propositivo». Intanto ha avuto bisogno di tanta gavetta Challenger e di tanta terra rossa: «Su questi campi mi sento a mio agio, ma l'obiettivo è poter giocare altrettanto bene sul cemento». L'arma migliore? «Mi aiuta la "garra", la grinta e lo spirito combattivo. Poi lavoro, umiltà e sacrificio: da sempre non conosco domenica o giorno di festa».Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero