«Fidel Castro ha fatto il proprio percorso. Sono nato a Cuba e lì ho trascorso tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza. Mi dispiace per la sua morte....
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Tapia, qual è il suo ricordo del periodo vissuto all’Avana?
«Non ho vissuto il periodo della rivoluzione, ma io posso solo ringraziare. Almeno prima della caduta del muro di Berlino, si stava bene, c’era tutto. Avevi l’imbarazzo della scelta negli studi, anche primari. Io ho avuto la possibilità di andare a scuola gratis. Mia sorella ha potuto andare all’università senza sostenere costi. Non ci mancava nulla».
E dopo il ‘91?
«Durante il periodo speciale sono cambiate le cose, per la necessità di una strategia che portasse ad un equilibrio interno».
Quanti fratelli ha?
«Siamo nove fratelli. Mia mamma era operaia in un’azienda, mio padre lo stesso. Lavoravano normalmente».
Sono rimasti a Cuba?
«Sì, la mia famiglia è là».
E lei, dopo l’arrivo in Italia, ha più avuto contatti con l’Avana?
«Nessun contatto, anche se Cuba è nel mio cuore, la prima casa. Ho preso un’altra strada, ho scelto un mondo nuovo, mi volevo concentrare su questo e inserirmi nel mio nuovo Paese. Volevo iniziare da capo. L’incidente è stato un elemento in più per concentrarmi sulla famiglia, sul lavoro, sullo sviluppo e sulle conoscenze».
Perché da Cuba all’Italia, per l’ingaggio sportivo?
«Un cambiamento di vita. Sono arrivato per ragioni sportive ma poi ho trovato altre motivazioni e ne ho approfittato per rimanere qua».
Quando viveva a Cuba, da bambino e durante l’adolescenza, che immagine aveva di Fidel Castro?
«Da piccolo ti facevano capire che era persona molto presente, educativa, una figura da seguire come esempio. Anche nel materiale che ti davano alla scuola primaria, era una delle prime figure che ti venivano trasmesse». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero