Il vecchio maestro vince anche quando perde. Anche adesso ch’è numero 3, rimane il numero 1. Perché nell’anticamera dei 38 anni (8 agosto, segno Leone)...
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IL RE
Frutto doc della Svizzera tedesca (Basilea, città definita spesso «sicura di sé», il che spiega molte cose), la classe e il rigore (tra i primi «pro» ad assumere un fisioterapista h24) e quell’eleganza ieratica che solo lui, Federer è un film che non stanca mai, una pellicola che il tennis divora dal ’98, esordio in Atp (ko con l’argentino Ker, all’epoca il re confidava dei «molti demoni tra cui la paura dell’ignoto»).
Zapping tra i capitoli? Era il 2000, bronzo a Sidney, dove conobbe Mirka (4 figli, coppia grande perché normale, come lui). Quindi il 2003, primo acuto che conta, sull’erba (amica) di Wimbledon. E poi il 2 febbraio 2004, in cima al ranking, alba del regno tra record di permanenza in vetta (237 settimane filate) e l’incipit della tenzone infinita (ma fraterna) con Nadal. E ancora, fra 2010 e 2016, i primi down, le nuove insidie (Djokovic), gli sgambetti del tempo (schiena, ginocchio). Fino al ritorno (Wimbledon ‘17, Australian Open ‘18) a fissare quel primato, unico, di 20 titoli nel Grande Slam.
IMMORTALE
Il linguaggio di Federer è un sublime, unificante esperanto del tennis, ogni suo colpo parla e ci parla, che sia servizio, rovescio, dritto, volèe. «Il tennis è più grande del tennista e vivrà anche senza di me», ha detto un giorno lui, che ha sempre messo «il narcisismo» in testa alle «trappole da evitare in campo», accettando il ruolo di star perché «così posso dare un’idea corretta di sport» e accarezzando già dieci anni fa l’idea di «giocare contro le generazioni future cioè contro la storia». Sbagliato. Federer, nella storia, ci gioca dentro. Ed è una storia che, nel tennis, poteva scrivere solo lui. God save the King. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero