Alì, il mondo celebra un mito che non morirà mai

Alì, il mondo celebra un mito che non morirà mai
ROMA Muhammad Alì cambiò da grande, d'età e di titoli, il nome di Cassius Marcellus Clay che gli era stato dato quel 17 gennaio 1942, esattamente 75 anni...

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ROMA Muhammad Alì cambiò da grande, d'età e di titoli, il nome di Cassius Marcellus Clay che gli era stato dato quel 17 gennaio 1942, esattamente 75 anni fa, quando nacque: quello era il nome di uno schiavista americano, che lo dava a tutti i suoi schiavi. Alì non voleva esser schiavo di niente, se non della sua grandezza, sbruffona e reale. Disse una volta: «Se a cinquant'anni vedi il mondo come lo vedevi a venti, hai sprecato trent'anni della vita tua». Chissà come lo vide quella sera ad Atlanta, nel 1996, quando accese la fiaccola dell'Olimpiade del Centenario e della Coca Cola, contraddizione postmoderna. Tremava, quella sera, Alì che non aveva tremato mai, che avesse di fronte Sonny Liston, da mandare al tappeto con un pugno fantasma che ancora non s'è chiarito; oppure George Foreman, che s'era presentato al match di Kinshasa, Rumble in the Jungle, con al guinzaglio un cane pastore tedesco di quelli che il re belga colonialista utilizzava contro i neri congolesi, e questi passarono subito dalla parte di Muhammad, Alì Boumayè fu il grido che risuonò nella giungla, uccidilo; oppure Joe Frazier, la notte del Thrilla in Manilla che pose fine, a suo favore, alla controversia su chi fosse il più forte. Può darsi che Alì, che è scomparso sei mesi prima di questo compleanno che tutto il mondo celebra come se lui ci fosse ancora, non sia stato il pugile più forte: gli si può preferire un Joe Louis oppure un Ray Sugar Robinson, non certo gli sciacquetti d'oggi.

DIBATTITO SENZA PESO

Inutile discutere di Coppi o Merckx, di Pelè o Maradona. Di certo è stato il più grande: girava con il manto d'ermellino e la corona da re che era. Tremava, Alì, quella notte, e il mondo tremò vedendo com'era diventato fragile, lui che mai era stato cattivo, che aveva tenuto il mondo (e i mondiali) in pugno, che aveva rappresentato l'Altra America, che chissà che cosa direbbe oggi a Donald Trump. Ma la fiamma s'accese ugualmente, come Alì aveva acceso sempre i cuori degli sportivi (e non) sia che volessero vedere messo kappaò qualunque avversario sia che, invece, volessero vedere lui in ginocchio, quel nero del Kentucky che aveva buttato nel fiume Ohio, nella sua Louisville, la medaglia d'oro di Roma '60 giacché un cameriere s'era rifiutato di servirlo perché negro, si diceva così, allora. «Nessun vietnamita mi ha mai chiamato negro» disse Alì rifiutando d'andare da soldato a combattere la sporca guerra. Perse tutto, titoli e licenza di boxe. Ma poi tornò e si riprese tutto. Disse anche, un'altra volta, che «il match più duro è stato con la mia prima moglie». Forse per questo ne prese poi altre tre, ed ebbe nove figli. Ma ebbe, soprattutto, miliardi d'innamorati. Ancora oggi: i suoi filmati sul web, la sua top ten, ha avuto in poco più di due anni quasi venti milioni di visualizzazioni. Si tratta dei Millennials che mai l'hanno visto dal vivo e non credono sia morto.
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Il Messaggero