ROMA Muhammad Alì cambiò da grande, d'età e di titoli, il nome di Cassius Marcellus Clay che gli era stato dato quel 17 gennaio 1942, esattamente 75 anni...
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DIBATTITO SENZA PESO
Inutile discutere di Coppi o Merckx, di Pelè o Maradona. Di certo è stato il più grande: girava con il manto d'ermellino e la corona da re che era. Tremava, Alì, quella notte, e il mondo tremò vedendo com'era diventato fragile, lui che mai era stato cattivo, che aveva tenuto il mondo (e i mondiali) in pugno, che aveva rappresentato l'Altra America, che chissà che cosa direbbe oggi a Donald Trump. Ma la fiamma s'accese ugualmente, come Alì aveva acceso sempre i cuori degli sportivi (e non) sia che volessero vedere messo kappaò qualunque avversario sia che, invece, volessero vedere lui in ginocchio, quel nero del Kentucky che aveva buttato nel fiume Ohio, nella sua Louisville, la medaglia d'oro di Roma '60 giacché un cameriere s'era rifiutato di servirlo perché negro, si diceva così, allora. «Nessun vietnamita mi ha mai chiamato negro» disse Alì rifiutando d'andare da soldato a combattere la sporca guerra. Perse tutto, titoli e licenza di boxe. Ma poi tornò e si riprese tutto. Disse anche, un'altra volta, che «il match più duro è stato con la mia prima moglie». Forse per questo ne prese poi altre tre, ed ebbe nove figli. Ma ebbe, soprattutto, miliardi d'innamorati. Ancora oggi: i suoi filmati sul web, la sua top ten, ha avuto in poco più di due anni quasi venti milioni di visualizzazioni. Si tratta dei Millennials che mai l'hanno visto dal vivo e non credono sia morto.
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Il Messaggero