De Biasi racconta il suo viaggio agli Europei: «Albania, un'avventura di cuore»

Gianni De Biasi
Pedala. «Partiamo dal ciclismo». Ma è un altro sport. «E chi lo dice?». Il viaggio di Gianni De Biasi è fatto di biciclette, aerei, navi, gommoni, ricordi, biglietti,...

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Pedala. «Partiamo dal ciclismo». Ma è un altro sport. «E chi lo dice?». Il viaggio di Gianni De Biasi è fatto di biciclette, aerei, navi, gommoni, ricordi, biglietti, fatica. Ha 56 anni, ha smesso di giocare quando ne aveva 33 e iniziato ad allenare a 34. Ha esperienza, fantasia, idee, basso profilo, alcune proposte delle quali non vuole parlare, due numeri di telefonino, un profilo WhatsApp con la foto della figlia e un altro con l'immagine di Madre Teresa. Scatti, racconti, fotografie. Giovanni detto Gianni, De Biasi “e non Di Biasi”, sta per volare in Francia e guiderà l'Albania, arrivata per la prima volta alla fase finale di un campionato europeo.

Quando le hanno chiesto di diventare commissario tecnico dell'Albania che stava facendo?
«Pedalavo. Ero a Vittorio Veneto in sella alla mia bicicletta da corsa. Mi ha chiamato un amico, mi ha detto della proposta».
E lei?
«Ci dovevo pensare. E ho ripreso a pedalare».
Primo pensiero?
«Ero scettico. Venivo da una bruttissima esperienza con l'Udinese, volevo staccare, forse chiudere. E poi l'Albania? Io non conoscevo niente di quel Paese».
Avrebbe mai fatto una vacanza in Albania?
«Allora no».
Ora?
«Certo, ci sono certe zone del Sud meravigliose, tipo Dhermi o la penisola di Porto Palermo».
Torniamo a Vittorio Veneto e alla ruota dei pensieri.
«Penso: vado comunque in Albania, ascolto le loro proposte. E penso a Carlo e Arturo».
Chi?
«I miei zii, emigrati in Svizzera. Perché questo era il Veneto negli anni Sessanta e Settanta, terra da dove emigrare. E allora parto per l'Albania».
Cosa trova?
«Idee chiare, vogliono un allenatore italiano. Quando arrivo hanno già fatto una prima selezione».
Si parte.
«Quattro anni fa, sfioriamo subito la qualificazione ai Mondiali, in Brasile. Ma con il mio vice, Paolo Tramezzani, e tutto lo staff sentiamo che serve qualcosa in più. Dobbiamo essere squadra, sempre».
Possibile che in Italia non si siano accorti di che allenatore avevano tra le mani?
«Ma sì che se ne sono accorti: sono orgoglioso di quello che ho vissuto in Italia. E magari vivrò altre esperienze italiane. Ma torno all'Albania: andiamo in Francia perché siamo una squadra. Siamo individualità, ma sempre all'interno di una squadra. E' così che le forze si moltiplicano. Niente individualismi. Siamo come il Leicester del mio amico Ranieri. Anzi, noi siamo arrivati prima».
Storie: partiamo da quella della famiglia Hysaj?
«Papà ha fatto sette, dico sette, viaggi in gommone per portare tutta la famiglia in Italia. Faceva il muratore e ora vede suo figlio giocare nel Napoli e agli Europei».
Storia di Berisha.
«La prima volta che un mio collaboratore lo ha incontrato, Etrit stava pescando. Viveva e giocava a Kalmar, anzi abitava in un borgo di pescatori nei pressi della cittadina svedese. Prima di allenarsi con noi non aveva mai avuto un preparatore dei portieri. E' bastata una partita, un'amichevole contro l'Iran, per capire quali fossero le sue straordinarie potenzialità».
Non è in bici, chiuda gli occhi e racconti le due principali emozioni della sua carriera?
«L'addio di Baggio, lo allenavo a Brescia, l'ho fatto uscire qualche minuto prima, applausi, sorrisi, lacrime, anche le mie. Ho chiuso gli occhi e ho sentito di condividere l'emozione di un campione che conclude una meravigliosa storia».
Altra immagine.
«La prima volta contro l'Italia, il mio Paese. Amichevole a Genova, oltre 11.000 dei nostri sugli spalti. Cantano l'inno nazionale albanese, poi non si fermano e cantano anche l'inno di Mameli, lo sanno tutto a memoria. Questa è l'emozione più forte della mia carriera».
Cosa hanno in più oggi gli albanesi rispetto agli italiani?
«Vogliono bruciare le tappe, non si arrendono mai».
E in meno?
«Le infrastrutture, ma ci stanno lavorando».
Torniamo al calcio. Ha ricevuto proposte da club italiani?
«Nessuna. Anzi no, una».
Che ha risposto?
«Grazie, ma sono il commissario tecnico dell'Albania, stiamo andando a giocarci un Europeo».
Il suo nome è accostato all'Italia, per il dopo Conte. Ha dieci secondi, prepari una risposta?
«A qualunque allenatore italiano fa piacere sentire il proprio nome accostato a quello della Nazionale. Sono italiano, alleno l'Albania, andremo agli Europei, vogliamo giocarcela».
Dopo la Francia?
«Mai dire mai».
Vuol ancora raccontarci di quel giro in bicicletta?
«Giro? Tour dell'Albania con gli amici, compreso Giovanni Storti, quello di Aldo Giovanni e Giacomo».
Lo sport è saper sorridere?

«Anche, ma il mantra del nostro tour era “la gioia della fatica”. Vale anche per il nostro tour de France». Pedala. C'è sempre un viaggio da ricominciare.
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Il Messaggero