Sorrentino: Youth o dittatura della visione?

Sorrentino: Youth o dittatura della visione?
Con Youth Sorrentino ci porta dentro una stazione termale svizzera per un ritratto dell’artista con prostatite. Fred...

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Con Youth Sorrentino ci porta dentro una stazione termale svizzera per un ritratto dell’artista con prostatite.


Fred (Michael Caine) è un vecchio compositore e direttore d’orchestra che non compone e non dirige più e Mick (Harvey Keitel) è un vecchio regista che sta lavorando alla sceneggiatura di quel che definisce essere il suo film testamento (e ambedue, in fondo, sono vicari del personaggio più riuscito di Sorrentino: Toni Servillo).



Il film, da un punto di vista diegetico, sta tutto qui: nella descrizione un poco didascalica dei suoi protagonisti. Perché già come succedeva ne “La grande bellezza” non c’è alcuno sviluppo significativo, nessun plot cui appigliarsi per quello che con ogni evidenza è uno studio sulla vecchiaia e sulla morte, e quindi, solo à rebours, sulla giovinezza e sulla vita.



Se la dinamica narrativa gira in tondo (esattamente come il movimento di macchina iniziale sul café-chantant termale), a contare per Sorrentino sembra unicamente la visione, qui sorretta da un uso della musica strabordante- si va dalla sound therapy (a Fred è rimasto solo un involucro di caramella per suonare) al wall of sound. Ma le visioni in Sorrentino sono quasi contrarie a quelle di un trip, o a certo cinema lisergico e sperimentale anni sessanta (di cui forse il finale di Easy Rider resta l’esito più mainstream, rassicurante e borghese). Lo spettatore non concorre al senso di ciò che vede ma è come intrappolato in questi sogni sognati distintamente da altri (spesso le visioni prendono l’avvio dagli incubi dei personaggi), in queste fantasmagorie tutto sommato rigide, fotografate impeccabilmente, ai limiti del patinato e del kitsch.



E Fred, e Mick? Si lamentano a turno per le loro infrequenti minzioni, e offrono allo spettatore- che guarda attraverso di loro- un punto di vista tutto maschile sulle donne (c’è una Miss Universo bella ma anche intelligente, c’è la star hollywoodiana che stava sotto le scrivanie dei produttori, c’è la figlia di Fred che viene lasciata dal marito perché scopa male, e altre ingenuità). Ripresi impietosamente nel loro decadimento fisico mentre si fanno massaggiare (le sequenze imperniate sul tran tran termale sono le più felici, e danno l’esatta dimensione del talento di Sorrentino), hanno scambi di dialogo scarni, in cui scatta immancabile la frase ieratica, l’aforisma che è la foglia di fico della mancanza di spessore psicologico. Per sintesi ne citiamo due, a specchio: “Le emozioni sono sopravvalutate”; “Le emozioni sono tutto ciò che abbiamo”.



In una delle scene più suggestive, Fred è seduto su un tronco d’albero e si appresta a dirigere un’orchestra invisibile, o meglio una mandria di mucche con tanto di campanaccio. Ecco, forse è l’immagine che ci torna più utile per descrivere cosa sta facendo Sorrentino in questi anni: un cinema senza film. Non può succedere nulla nel cinema di Sorrentino, se non appunto il cinema di Sorrentino. Quello che gli servirebbe di più sarebbe una scuola di scrittura. Rispetto ad altri tentativi- dove almeno c’era un elemento sociale o civile come la mafia o la politica che, benché traviato, faceva da traino motivazionale alle scene- qui non è rimasto più niente da filmare (neppure Roma come la filmerebbe un turista giapponese). Ma trattandosi di Sorrentino, diciamo che è un imperdibile film interlocutorio.



Twitter: @LuRicci74 Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero