William Kentridge: «Il mio affresco presto diventerà un ricordo»

William Kentridge, autore dell'affresco Triumphs and Laments lungo il Tevere
«Roma è una città diffusa. Il suo respiro è ovunque. Ci sono tracce della sua eredità in ogni parte del mondo. Il latino ha forgiato...

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«Roma è una città diffusa. Il suo respiro è ovunque. Ci sono tracce della sua eredità in ogni parte del mondo. Il latino ha forgiato l’inglese, le lingue romanze. Il codice romano continua essere il testo di riferimento. Roma è la continuità, un’onda che attraversa i secoli e le civiltà. Proprio come il suo fiume. È così che la immaginai quando arrivai la prima volta, a sei anni, con gli occhi incantati. Venivo dal Sudafrica, dalla “periferia” della Terra. E questa commistione di rovine e grandezza mi introdusse nel cuore dell’Occidente».

 

William Kentridge, 63 anni, è l’autore di opere che occupano palcoscenici e musei, grandi schermi e grandi muri come quello su cui è nato nel 2016, “Triumphs and Laments, il fregio monumentale lungo le sponde del Tevere. Una marcia silenziosa di personaggi, da Romolo e Remo alla Dolce Vita, con cui l’artista sudafricano ha scritto la sua storia della città. Un’opera effimera, realizzata in “negativo”, per cancellazione, ripulendo la patina biologica del travertino. Destinata a scomparire.
 

Quanto potrà durare ancora?
«Sta scomparendo più velocemente di quanto avessi immaginato. Pensavo fosse visibile per almeno sette anni. E invece il processo è in anticipo di almeno un anno, se non due. Pian piano le immagini si trasformeranno in ombre che emergono dalla pietra. Molto dipende dalla manutenzione. Ma ormai ha una vita autonoma da me. Presto rimarrà solo nel ricordo di chi l’ha visto. O nelle migliaia di foto e video in circolazione. Ma mi piace che sia così».

Che cosa ha visto nel Tevere?
«L’ho sempre percepito, sin da quando lo vidi da bambino, come uno strano posto, con erbacce scure sul fondo, racchiuso da muri imponenti. Abbastanza deserto. Completamente diverso dalla Senna o dal Tamigi, sia in termini di grandezza, sia in termini di abbandono».

Qual è la sua bellezza?
«È il fiume che attraversa una città millenaria. Onde che trascinano il passato, senza mai tornare indietro».

La grandezza di Roma come si manifesta?
«Roma è grande e terribile. Una storia che va oltre i suoi confini. Roma è stata un maremoto che ha ridefinito il mondo. E molto di quello che succede oggi in Europa ha a che vedere con l’impero di duemila anni fa. Le guerre tra Roma e Cartagine, i rapporti tra Europa e Africa. Il Colonialismo. Il Mediterraneo come luogo di conflitti e di incontro tra i due continenti. Un mare che accoglie e in cui si va a fondo».

Le è capitato di riconoscere la presenza di Roma nel mondo?
«Sempre. Non direttamente, ma ovunque. La lingua che parlo. Gli studi. Uno dei punti centrali dell’educazione colonialista è l’apprendimento al liceo del latino. Così come i testi fondamentali di Legge: erano romani. Ci sono tracce disseminate nelle società e dentro la mia memoria. Non solo le immagini cartolina, la Bocca della Verità, i carabinieri, Trinità dei Monti, che colpiscono i turisti, adulti o bambini, quando arrivano in città. Ma le emozioni e le storie che hanno accompagnato la mia adolescenza, La Dolce Vita, Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Momenti fondamentali della mia crescita che ho poi raccontato sul fregio lungo il Tevere».

Qual è la sua storia di Roma?
«Ho scelto personaggi importanti per la mia formazione, come i film di Fellini, o Geremia della Cappella Sistina, Masaccio, anche se non ha particolari relazioni con Roma, e poi protagonisti eroici, Marco Aurelio e Garibaldi, anche per creare una continuità tra uomini che hanno rappresentato la loro grandezza a cavallo. E poi capitoli che conoscevo meno, legati alla costruzione di San Pietro e il Ghetto, momenti storici vergognosi, che ho scoperto solo di recente».

Avrebbe senso un affresco così anche in altre città?
«Me lo hanno chiesto. Ma si dovrebbero presentare le stesse condizioni. Il travertino e quel tipo di batteri che anneriscono i muri in un certo modo. Una striscia di fiume come il Tevere a Ponte Sisto, con la stessa storia. E le emozioni e le connessioni che si sono create tra la città e il mio modo di vedere l’arte».

Il suo prossimo progetto romano sarà al Teatro dell’Opera. Ce lo anticipa?

«Si chiama “Waiting for the Sybil”, andrà in scena a settembre. Nella prima parte lo spettacolo che Calder fece per il Costanzi nel 1968, “Work in progress”. E nel secondo atto la mia reazione al movimento dei suoi mobile. Ho pensato a frammenti di carta come le foglie su cui la Sibilla Cumana scriveva i suoi vaticini. E al vento che fa volare le predizioni e mescola in un mulinello, la versione dei mobile di Calder, i destini dell’umanità. Sto lavorando con dei compositori sudafricani, musicisti e cantanti del mio Paese. Sarò felice di essere presto di nuovo a Roma».
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Il Messaggero