Ulisse è un uomo stanco, steso in un letto di ospedale. E il suo corpo malato diventa il campo di battaglia tra gli Dei che si disputano il suo destino. «I tuoni e le...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 6 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
William Kentridge, artista sudafricano e del mondo, presenta la sua regia del “Ritorno di Ulisse in Patria”, capolavoro di Monteverdi, in scena al Teatro Massimo di Palermo dal 7 al 10 febbraio, con l’ensemble Ricercar Consort. Autore di opere che occupano palcoscenici o musei, grandi schermi o grandi muri come quello su cui è nato “Triumphs and Laments”, il fregio monumentale lungo le sponde del Tevere, illumina ora il palco del lirico siciliano con proiezioni, disegni, luci che accompagnano con la musica il cammino di Ulisse.
E in una corsia medica senza tempo, cantanti lirici, marionette e operatori dei puppet in legno offrono, in uno straordinario gioco di squadra, sfumature diverse del mito.
Un lavoro che ha una ventina d’anni.
«È cresciuto con me. Avevo 43 anni quando l’ho ideato e ora ne ho 63: è il mio percorso per tornare al punto da cui sono partito».
Spazia in più discipline e crea corti circuiti di fantasia, utilizzando linguaggi diversi per lo stesso lavoro: è questa la sua forza?
«Mi sono reso conto che in nessuna di queste espressioni riuscivo a eccellere, ma che solo mettendole in relazione veniva fuori l’essenza del mio messaggio».
Perché ha scelto “Il Ritorno di Ulisse”?
«Il punto di partenza è stato il lavoro con i puppet. E Ulisse il test su come una marionetta interagisce con l’opera. All’inizio la musica di riferimento sono stati i madrigali di Monteverdi nelle vecchie registrazioni di Nadia Boulanger. Ma avevamo bisogno di un po’ di narrativa e via via che si procedeva, i madrigali scomparivano e avanzava Ulisse. Il risultato, un’opera più breve dell’originale, è il frutto di un insieme di esigenze dettate dal peso delle marionette, non trascurabile, dai cantanti, dall’arrangiamento musicale curato da Philippe Pierlot e da me».
La sua passione per Monteverdi?
«Una musica che offre opportunità straordinarie di combinare i vari aspetti del mio lavoro. Lascia spazio. Nel prologo, Tempo, fortuna e amore, introduce il tema della fragilità umana. E da lì che è partito anche il mio viaggio».
La fragilità e il limiti dell’essere umano.
«Ho riportato il tema dell’impotenza dell’uomo nei confronti degli dei dentro il corpo. Gli infarti le malattie sfuggono al nostro controllo, come il destino. Un ictus può distruggere la nostra vita, come facevano gli dei nell’antica Grecia. Noi non crediamo più nelle divinità, non andiamo al tempio, ma in palestra. Proprio per venerare il nostro corpo, il nostro Dio. È questo il mio sguardo contemporaneo sull’Ulisse di Monteverdi, la nostra relazione con il Cielo».
Sul palco ci sono cantanti, marionette e operatori: come suddivide i ruoli?
«Ognuno offre un punto di vista. Ci sarà l’Ulisse eroico che torna a rivendicare la sua Penelope e l’Ulisse malato in un letto di ospedale. La lettura sta nell’assemblare più sfaccettature. Gli spettatori possono viaggiare da un interprete all’altro».
Il viaggio nei mari è un tema al centro della politica europea. Che cosa ne pensa?
«Il benessere dell’Europa affonda le radici nel passato, nelle conquiste, dall’Antica Roma fino al Colonialismo del XIX secolo. L’Europa ha attinto dall’Africa, dal Sudamerica, dall’Oriente. Il sudore e il lavoro di persone che nei secoli hanno contributo a costruire la bellezza e la ricchezza della società, oggi va restituito. Accogliendo o aiutando nei Paesi d’origine. Ma non chiudendosi dentro se stessi».
Il suo progetto all’Opera di Roma, a settembre “Waiting for the Sybil”.
«È parte di uno spettacolo suddiviso in due momenti.
La sua relazione con Roma.
«È molto forte. L’ho visitata per la prima volta quando avevo sei anni e rimasi incantato e terrorizzato dalla Bocca della Verità. E continuo a guardarla con quegli occhi. Ignoro la spazzatura non raccolta e le migliaia di turisti. Oggi mi sorprendo ed emoziono per le strade piene di storia, il cibo meraviglioso, la bellezza, i colori come accadde tanti anni fa a un bambino cresciuto in Sudafrica». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero