Tutto quello che avevamo già capito del cinema di Paolo Sorrentino riproposto in versione fluida e semplificata per le grandi platee internazionali. ...
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Tutti i temi e le ossessioni, i tic e le manie, i dialoghi ben torniti e i pezzi di bravura a cui ci ha abituato il regista de La grande bellezza, in un film fatto per piacere al più ampio publico possibile, ma che difficilmente conquisterà chi ama e conosce il cineasta napoletano dai tempi de L’uomo in più. Dal punto di vista produttivo probabilmente è una grande idea, anche se ci dispiacerebbe perdere un talento di questo valore. La storia del cinema è piena di grandi registi giramondo, ma non sono in pochi a essersi persi abbandonando le proprie radici. Artisticamente la faccenda è molto meno interessante: Youth è un catalogo di idee grandi e piccole che ruota intorno al tema vasto e sfuggente del tempo che passa e ci trasforma.
Trasformando continuamente anche il sentimento più prezioso e inafferrabile, l’amore, che proprio per questo, anno dopo anno, sembriamo destinati a non riconoscere. L’ambientazione, un grande albergo termale in Svizzera, è affascinante e rimanda fin troppo esplicitamente a Fellini 8 e 1/2. Il cast è di primordine (Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda...). I sentimenti contraddittori che assalgono i personaggi - accettazione della vecchiaia, rimpianto della giovinezza, vitalità insopprimibile, voglia di continuare a rischiare e progettare senza rinnegare il proprio passato - sono complessi e universali. Ma la sensazione resta quella.
Che Sorrentino, volutamente o meno, abbia sfrondato, smussato, semplificato, insomma depotenziato il suo cinema rendendo leggibile e divertente ciò che era faticoso e appassionante, piacevole e rassicurante ciò che era torbido e inquietante. Potrà guadagnarci in comunicazione. Ma di certo non in profondità. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero