Il suo modello erano gli aforismi di Oscar Wilde, gli epigrammi di Marziale, le battute poco inclini al politicamente corretto, precise e taglienti come lame di rasoio. Che...
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Peschiamo a caso dalla rubrica che per anni ha curato per Il Messaggero.
«Non sono Cagliostro, non sono Nostradamus, non sono Melampo, non sono Tiresia, anche perché ci vedo benissimo. Sono un inquilino dello Stivale che non capisce più niente di quel grande condominio, diventato un gran casino che è l’Italia...» Gervaso non ha remore ad ammettere che ora siamo tutti «in brache di tela, pieni di buchi neri e di ponti crollati dove tutti litigano con tutti e tromboneggiano. Questa, vi piaccia o no, è l’Italia: da De Gasperi a Conte, da Fanfani a Toninelli, da Andreotti a Di Maio».
Nato a Roma il 9 luglio del 1937, il futuro vincitore (per due volte) del Premio Bancarella trascorre la giovinezza a Torino, e si laurea con una tesi dedicata proprio a un filosofo eretico, Tommaso Campanella. Nel 1960 comincia la sua carriera giornalistica al Corriere della Sera, con il grande Indro Montanelli. Inizia anche l'opera di divulgazione, curando con il suo direttore la serie di sei volumi della “Storia d’Italia”. Come commentatore è implacabile, anche in televisione. Conduce su Rete4 “Peste e Corna e... Gocce di storia" (dal 1996 al 2005), dal 2002 conduce “Storie dall’altro secolo”.
Sempre con Montanelli, nel 1967 firma “L'Italia dei Comuni” (vincendo il Bancarella), che attraverso le vicende di Genova e Pisa, Amalfi e Venezia, Firenze e Siena, racconta già molto di quello che diventerà l’Italia. Il secondo Premio arriva nel 1973, con la biografia di un uomo che gli era molto congeniale, Cagliostro. La verve aforistica, in tutta la sua produzione letteraria, è fulminante; ed ha sempre l’effetto di indurre alla riflessione, scompaginando le carte. «D'indipendente, in Italia, c'è solo l'anarchia», sosteneva.
Sapeva sorridere anche delle cose più tragiche, Roberto Gervaso, e faceva riflettere, a volte, con amarezza. In fondo, sapeva che «la morte ci fa rinunciare a quello che la vita non ci avrebbe mai dato». Ma era sempre ai destini della nostra Italia che riservava le frecciate più clamorose. E coglieva sempre nel segno, perché «non siamo un popolo né di santi né di poeti né di artisti né di navigatori: siamo un popolo di pesci in barile». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero