Zero il Folle, Renato presenta il nuovo album: «Le piume di struzzo mi hanno strappato alla noia»

Zero il Folle, Renato presenta il nuovo album: «Le piume di struzzo mi hanno strappato alla noia»
Zero il Folle. Un titolo che è stato lì ad aspettare per cinquant'anni di carriera, in fondo sempre esistito, e dal 4 ottobre racchiuderà i tredici...

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Zero il Folle. Un titolo che è stato lì ad aspettare per cinquant'anni di carriera, in fondo sempre esistito, e dal 4 ottobre racchiuderà i tredici inediti di Renato Zero, che ieri ha presentato il disco in una conferenza romana gremita di fan, parenti, ex ragazzi del Piper, con torta di compleanno per i suoi 69 anni e cellulari requisiti all'ingresso. Ha più volte giocato con il cognome d'arte (Zerofobia, EroZero, La coscienza di Zero, Zerovskij) e con la follia, nell'accezione artistica, quella dei sognatori svegli: «Piume di struzzo e paillettes mi hanno strappato al grigiore, alla noia e al disincanto. Non volevo fare come papà che si infilava il sughero fra i denti e solfeggiava ma non è mai diventato baritono. Ringrazio Zero per avermi posseduto sin dall'età di quindici anni, incarnando il desiderio di cambiare vita. Le mie canzoni hanno fatto un bel casino».


LA CARTA
Zero il folle, la carta dei tarocchi che anticipava il futuro. La rivoluzione la fece travestendosi negli androni della borgata, ispirandosi ai vinili americani di amici marinai «che venivano bloccati alle frontiere. Forse c'era un Salvini anche allora». Una ribellione che manca, nel tempo dell'apatia di cui canta in Tutti sospesi. I maschi abbondano, gli uomini scarseggiano: «Non sono un mestierante, ma una persona uscita dagli schemi, portatore sano di coraggio. Ho mandato a quel paese la borghesia e indossato la mia natura, con la voglia di muovere il pensiero e la sensibilità altrui».

Nemmeno stavolta si sottrae all'impegno e tocca temi importanti: il crollo delle nascite in La culla è vuota, dove parla anche di aborto: «Esistono situazioni in cui non mi sento di metterlo all'indice, tipo la violenza sessuale. Lo condanno come forma anticoncezionale che supplisce ai preservativi». E poi l'importanza della genitorialità, anche adottiva, l'ecologia in Che fretta c'è (accenna al crollo del Ponte Morandi). Dice la sua su Greta Thunberg: «Gli adulti sono frastornati dal clamore suscitato da una bimbetta che grida ai potenti di non voler morire intossicata. Non capisco come si possa attaccarla sui social».

LA PROPAGANDA
Social affondati già nel singolo Mai più da Soli: «C'è la propaganda ad offrirsi, la competizione insana a superare Sara Ferragni. Ah, mo' se chiama Chiara? Noi della giungla non siamo aggiornati. Io per cercare le persone uso ancora il citofono e al lettino dello psicologo preferisco il bancone del pizzicagnolo, che ti ascolta e ti dà la sensazione che a tutto ci sia soluzione».

Fatto a mano è anche il disco, con molti assoli e arrangiamenti rock vecchia maniera. Fra gli altri, ha chiamato alle chitarre Phil Palmer, Alan Clark dei Dire Straits alle tastiere, alla produzione Trevor Horn. Sente la necessità di rispolverare l'ottimismo: «Nemmeno il cielo che vedevo quando scrissi Il cielo è lo stesso. I temporali di una volta erano sorridenti, venivano a pulire quello che non pulisce oggi la Raggi. Roma è la mia città e nel vederla così, tra buche e spazzatura, provo tristezza».

IL CORO
L'episodio più ironico è Ufficio reclami, che unisce peccatori carnali a un coro innocente da Zecchino d'Oro. Quattro passi nel blu è per Dalla, Graziani, Mango «artisti che indosso come la copertina di Linus». Più che i brani di attualità, ad affascinare sono quelli in cui prevale Zero, la sua maschera di verità, Questi anni miei e soprattutto la title track, il suo identikit fra sacro e profano: Ero nato per essere niente. Mi sono trovato nella barba di un vecchio eremita, in un bimbo, nel cuore di una puttana, cosi vera e umana.


Dal 1 novembre il tour (già 13 sold out sulla fiducia) parte dal Palazzo dello Sport di Roma. Zero continua ad autoprodursi: «Le multinazionali non rappresentano la mia musica e la mia gente. Si chiamano così perché i soldi li prendono qui e li spendono a casa loro. Una forma di usurpazione che non condivido. Non mi lascio manomettere». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero