Va' dove ti porta il vanto. La vanteria di Bob Dylan non lo porta a Stoccolma. E lo fa somigliare a una versione, non simpatica e superba, del «re della mezza...
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Non è diventato ripetitivo, anche ai suoi occhi, il giochino di voler demitizzare continuamente - anche storpiando le canzoni - il proprio mito, per farlo risplendere sempre di più? Davanti a questa maleducazione, viene da dire: ma allora il Nobel potevano darlo a quel gentiluomo di Leonard Cohen, come ultimo tributo prima che morisse, e forse lui letterariamente se lo sarebbe meritato più di Bob.
COHEN
Proprio Cohen, a proposito del Premio a Dylan ha detto: «E' come se lo avessero dato all'Everest». Ma l'Everest si sarebbe scomodato per andare a Stoccolma. Senza infilarsi, prima di partire, in disquisizioni morettiane - mi si nota di più se vado o se non vado? - che non fanno onore all'autore di «Like a Rolling Stone» e di altri capolavori. Insomma non si poteva trovare qualcun altro da premiare, che avrebbe dato al Nobel l'importanza che merita?
Magari Dylan non va dagli accademici svedesi perché si sente inadeguato all'onorificenza tributatagli: ma questa è l'ipotesi più debole.
O più probabilmente non va perché la vita è arte e lui si sente a livello planetario come quel personaggio della sua canzone intitolata: «Neighborhood Bully» (bullo di quartiere). In ogni caso, per Bob, il ritiro del Premio poteva essere l'occasione per smontare il suo leggendario senso di superiorità. E per fare proprie le parole di un altro cantautore, Fabrizio De André: «Non mi sento responsabile d'essere migliore degli altri. Ciò che non sopporto è di provare piacere nel dimostrarlo». Questo piacere, invece, inebria e ubriaca Dylan. Rimpicciolendolo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero