Padrenostro, un grande Pierfrancesco Favino nel film di Noce

Pierfrancesco Favino
Primo film italiano in Concorso tutto maiuscolo: PADRENOSTRO. Gigantismo nel font dell'intestazione della terza regia di Claudio Noce in linea con il frontman della pellicola:...

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Primo film italiano in Concorso tutto maiuscolo: PADRENOSTRO. Gigantismo nel font dell'intestazione della terza regia di Claudio Noce in linea con il frontman della pellicola: Piefrancesco Favino, mai così grande come negli ultimi due anni grazie a Il traditore (2019) di Bellocchio ed Hammamet (2020) di Amelio. Ma non è lui il protagonista.


La star si nota di più perché è in disparte in questa avventura adolescenziale nell'Italia degli Anni di piombo. Valerio è timido, biondo, forbito e borghese. Christian è smilzo, sporco di terra, romanaccio e fuma come un turco. Il primo è il figlio di un magistrato (Favino) crivellato di colpi sotto casa (ma sopravvive). Il secondo dorme per strada e per metà film sembra un fantasma. Valerio ha preso tutto dalla mamma ed è per questo che quando arriva quel papà calabrese così imponente e sfuggente, si fa tutto tremante anche se il timore cede il posto all'estasi quando l'omone gli insegna a guarirsi una ferita allo specchio con pochi, virili gesti (momento magnifico). Tutti sembrano desiderare questo eroico magistrato: noi spettatori, i terroristi che vorrebbero farlo fuori, la moglie, Valerio e pure il fantasmatico Christian (perché?).
 

Quando il film di Noce gioca col mistero, PADRENOSTRO ti conquista. Poi quando la storia si fa più realistica e Christian diventa un concreto amichetto con cui andare in gita in Calabria ospitato dalla famiglia di Valerio, tutto rischia di crollare inghiottito da un'evidenza che sa di contraddizione. Ma perché lo scrupoloso magistrato non fa mai dei controlli su quel bizzarro conoscente del figlio? Non sono nemmeno troppo convincenti prologo ed epilogo con Valerio e Christian reincontratisi da grandi in metropolitana. Che peccato.

Siamo invece dalle parti dell'entusiasmo costante per l'entrata indiana in competizione "The Disciple" di Chaitanya Tamhane, appassionante storia di un patito di musica classica indiana in costante tensione tra fedeltà agli ideali paterni (è un Festival al momento ossessionato dal rapporto genitori-figli) e un'India che va verso la musica pop più triviale. Il protagonista è pazzesco e il bravo regista Tamhane l'ha scelto ad hoc visto che è il bambino prodigio Aditya Modak, esponente di spicco del folk indiano.


Seguiremo le vicissitudini di tale Sharad Nerulkar (interpretato da Modak) tra concerti, ricordi familiari, guru severi, sfighe amorose e costanti sconfitte a ogni contest canoro cui partecipi. E' un genio solitario custode di una sopraffina tradizione ormai residuale o ha sbagliato tutto traviato da un padre pazzo e incosciente? Da gustare fino all'ultima bellissima inquadratura in metropolitana (come film di Noce), specialmente nei tanti momenti di concerti dal vivo in cui queste ipnotiche litanie, di cui non sapevamo niente, ti entrano nel cervello. Conoscevamo invece la storia di Kempton Bunton, sessantenne inglese autore nel 1961 del furto del ritratto del Duca di Wellington di Goya dalla National Gallery di Londra, ma non potevamo certo immaginare potesse diventare un film così scoppiettante. Applausi convinti, fuori concorso, per questa eccellente commedia diretta da Roger Michell con Jim Broadbent ed Helen Mirren. “Anche se ho la faccia di Elisabetta I, in realtà possiedo i testicoli di Enrico VIII” dirà la moglie (Mirren) di Bunton (Broadbent) per cercare di impedirgli di mettere in piedi le sue bizzarre proteste politiche. Mai avrebbe ipotizzato che lui, o suo figlio (gran colpo di scena finale), avrebbero rubato un quadro da 140 mila sterline beffando servizi segreti e Scotland Yard. Che storia. Che film. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero